Fotografia: ICONE ITALIANE
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Lot 49 Franco Grignani (1908 - 1999) - Tensione Circolare (Particolare), 1957
cm 50 x 40,4
Stampa alla gelatina ai sali d'argento, stampata anni 1960/1970
Titolata, datata e firmata a matita con timbro del fotografo al verso
Opera in cornice
Franco Grignani (Pieve Porto Morone, Pavia 1908 – Milano 1999) si laurea a Torino in architettura e si avvicina prima al Secondo Futurismo poi al Costruttivismo e all’Astrattismo Geometrico. Ciò lo spinge a studi sulla percezione visiva e sulla psicologia della Gestalt che applica alla fotografia operando torsioni, deformazioni, rotazioni, rovesciamenti prospettici per sollecitare in chi le osserva curiose suggestioni per creare quelle che chiama “tensioni strutturali”. Alla ricerca in campo fotografico che anticipa la Optical Art e lo porta a realizzare mostre e comparire in importanti collezioni accosta la professione di pubblicitario, grafico e designer di successo accanto alla moglie Jeanne, bravissima illustratrice. Lavora per clienti come Pirelli, Necchi, Singer, Penguins Books, Pura Lana Vergine di cui disegna il marchio. Mostre, libri e riconoscimenti lo certificano come uno dei più interessanti esponenti della fotografia di ricerca non solo
italiana.
Questi due esempi illustrano molto bene l’estro di Franco Grignani che già emerge in un’opera giovanile del 1928 dove l’autore dimostra di possedere non solo una notevole fantasia creativa ma anche una grande padronanza della camera oscura. Qui la doppia esposizione vede svettare decisa e minuziosa nei dettagli l’immagine di una barca a vela cui si sovrappone il fotogramma triplicato di un paio di occhiali posti in modo da distorcerne la forma e renderne quasi diafana la presenza. “Tensione particolare” è, al contrario, un esempio classico degli interventi visivi creati con precisissima attenzione (prima del Politecnico Grignani aveva frequentato la facoltà di matematica e si vede) dalla sottolineatura del contrato netto fra l’area bianca e quella nera addolcito però dalle linee curve che guidano lo sguardo dal centro dell’opera fino al suo margine alto e poi riportarlo dalla periferia al centro in un gioco visivo carico di fascino.
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Lot 50 Guido Guidi (1941) - Graz, 1991
cm 23,5 x 30 (cm 20 x 25 immagine)
Stampa a contatto vintage
Firmata a matita al verso
BIBLIOGRAFIA
M. Gentili (a cura di), Forma. Visioni e visione, Arti Grafiche Friulane, Fagagna, 1994, p. 187
Guido Guidi (Cesena 1941) i suoi studi nel campo del disegno industriale e gli interessi per il neorealismo e l’arte concettuale lo spingono a elaborare uno stile fotografico rigoroso che indaga sugli spazi di una quotidianità architettonica marginale raramente al centro dell’interesse. Con questo suo ruolo partecipa a importanti progetti sul territorio da “Viaggio in Italia” a “L’Archivio dello Spazio della Provincia di Milano e a “Linea di Confine”, il progetto da lui stesso ideato con Paolo Costantini e William Guerrieri. Molte le mostre esposte soprattutto in musei e istituzioni internazionali compresa la recentissima personale al Maxi di Roma e significativo il suo impegno nella didattica in accademie e università a Venezia, Milano, Lecce, Bari.
Per comprendere lo stile fotografico di Guido Guidi bisogna partire dal suo uso di una fotocamera a banco ottico 20x25: questo spiega l’attenzione minuziosa che dedica ai suoi soggetti, il rigore con cui crea composizioni frontali formalmente ineccepibili cogliendo dettagli che poi ci appaiono sorprendenti, l’uso attento della luce che caratterizza spazi dove si sente, sottintesa, la presenza umana. È un autore che non vuole sorprendere perché la sua è una fotografia che si muove nel silenzio e richiede attenzione. Il particolare di una finestra di Chioggia accarezzata dagli steli di un cespuglio evoca il soffio del vento che muove l’erba e sbatte sul legno vissuto dell’imposta sbarrata. Al contrario, il paesaggio ripreso a Graz dal punto di osservazione del primo piano allarga lo sguardo in una profondità anche simbolica che ci parla dei grandi mutamenti delle periferie delle città post-industriali.
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Lot 51 Guido Guidi (1941) - Chioggia 03, 2000
cm 23,5 x 30 (cm 20 x 25 immagine)
Stampa a contatto vintage
Firmata, datata, titolata e dedicata a matita al verso
Opera in cornice
Guido Guidi (Cesena 1941) i suoi studi nel campo del disegno industriale e gli interessi per il neorealismo e l’arte concettuale lo spingono a elaborare uno stile fotografico rigoroso che indaga sugli spazi di una quotidianità architettonica marginale raramente al centro dell’interesse. Con questo suo ruolo partecipa a importanti progetti sul territorio da “Viaggio in Italia” a “L’Archivio dello Spazio della Provincia di Milano e a “Linea di Confine”, il progetto da lui stesso ideato con Paolo Costantini e William Guerrieri. Molte le mostre esposte soprattutto in musei e istituzioni internazionali compresa la recentissima personale al Maxi di Roma e significativo il suo impegno nella didattica in accademie e università a Venezia, Milano, Lecce, Bari.
Per comprendere lo stile fotografico di Guido Guidi bisogna partire dal suo uso di una fotocamera a banco ottico 20x25: questo spiega l’attenzione minuziosa che dedica ai suoi soggetti, il rigore con cui crea composizioni frontali formalmente ineccepibili cogliendo dettagli che poi ci appaiono sorprendenti, l’uso attento della luce che caratterizza spazi dove si sente, sottintesa, la presenza umana. È un autore che non vuole sorprendere perché la sua è una fotografia che si muove nel silenzio e richiede attenzione. Il particolare di una finestra di Chioggia accarezzata dagli steli di un cespuglio evoca il soffio del vento che muove l’erba e sbatte sul legno vissuto dell’imposta sbarrata. Al contrario, il paesaggio ripreso a Graz dal punto di osservazione del primo piano allarga lo sguardo in una profondità anche simbolica che ci parla dei grandi mutamenti delle periferie delle città post-industriali.
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Lot 52 Frank Horvat (1928 - 2020) - Senza titolo, 1970s
cm 39 x 27
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Timbro del fotografo al verso
Frank Horvat (Abbazia, Croazia 1928 – Parigi, Francia 2020) di famiglia ebrea, si rifugia in Svizzera dove vende la sua collezione di francobolli e compra una fotocamera con cui, trasferitosi a Milano nel 1947, inizia una carriera che svolterà quando a Parigi incontra Cartier-Bresson e Capa che lo avviano al reportage. Lo attua in un viaggio compiuto senza biglietto di ritorno in India e Pakistan: qui realizza immagini che gli permettono di collaborare con Life. Altro incontro fondamentale è con William Klein che lo introduce nel mondo della moda e a riviste come Les Jardin des Modes, Elle, Vogue, Harper’s Bazaar. Negli anni ’90 è fra i primi a sperimentare storie fantastiche utilizzando fotomontaggi in digitale.
Frank Horvat raccontava di aver accettato di buon grado il lavoro nella moda perché, essendo timido, poteva entrare più facilmente in contatto con le donne. Vero o falso che sia, sta di fatto che porta in quel mondo un approccio diverso, più libero e diretto, quello stesso che utilizzava nei suoi reportage di viaggio. Come William Klein, fa muovere le sue modelle fra le vie delle città inseguendole in esterni in una finta ma ben studiata normalità come ben dimostrano questi due esempi. Siamo di fronte – almeno così sembra – a due ragazze che si muovono in città curiosando qua e là, una si mette in posa davanti a un cartellone pubblicitario come volesse sorridere a un amico che le vuole fare un ritratto, l’altra getta uno sguardo verso chissà dove con alle spalle le merci ordinatamente esposte di un mercato rionale, dove sembra essere andata a fare la spesa. E con malizia Horvat ci fa pensare che sarebbe una fortuna incontrarla proprio lì dove forse potremmo andare ogni mattina.
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Lot 53 Frank Horvat (1928 - 2020) - Senza titolo, 1970s/1980s
cm 37,4 x 25,4 (cm 35,8 x 24 immagine)
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Timbro del fotografo al verso
Frank Horvat (Abbazia, Croazia 1928 – Parigi, Francia 2020) di famiglia ebrea, si rifugia in Svizzera dove vende la sua collezione di francobolli e compra una fotocamera con cui, trasferitosi a Milano nel 1947, inizia una carriera che svolterà quando a Parigi incontra Cartier-Bresson e Capa che lo avviano al reportage. Lo attua in un viaggio compiuto senza biglietto di ritorno in India e Pakistan: qui realizza immagini che gli permettono di collaborare con Life. Altro incontro fondamentale è con William Klein che lo introduce nel mondo della moda e a riviste come Les Jardin des Modes, Elle, Vogue, Harper’s Bazaar. Negli anni ’90 è fra i primi a sperimentare storie fantastiche utilizzando fotomontaggi in digitale.
Frank Horvat raccontava di aver accettato di buon grado il lavoro nella moda perché, essendo timido, poteva entrare più facilmente in contatto con le donne. Vero o falso che sia, sta di fatto che porta in quel mondo un approccio diverso, più libero e diretto, quello stesso che utilizzava nei suoi reportage di viaggio. Come William Klein, fa muovere le sue modelle fra le vie delle città inseguendole in esterni in una finta ma ben studiata normalità come ben dimostrano questi due esempi. Siamo di fronte – almeno così sembra – a due ragazze che si muovono in città curiosando qua e là, una si mette in posa davanti a un cartellone pubblicitario come volesse sorridere a un amico che le vuole fare un ritratto, l’altra getta uno sguardo verso chissà dove con alle spalle le merci ordinatamente esposte di un mercato rionale, dove sembra essere andata a fare la spesa. E con malizia Horvat ci fa pensare che sarebbe una fortuna incontrarla proprio lì dove forse potremmo andare ogni mattina.
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Lot 54 Francesco Jodice (1967) - What We Want, Tokio T12, 1999
cm 100 x 125
C-print vintage
Edizione 1 di 8
PROVENIENZA
Photo & Contemporary, Torino
Opera accompagnata da Certificato d'autenticità rilasciato dal fotografo
Francesco Jodice (Napoli 1967) laureato in architettura a Milano dove vive e lavora, dal 1995 usa la fotografia e successivamente anche il mezzo filmico per affrontare i temi del cambiamento che riguarda i grandi paesaggi urbani contemporanei partecipando alla costituzione del collettivo Multiplicity. Altre ricerche sono poi quelle legate al megapolitismo come alla crisi del sistema occidentale e i suoi possibili scenari futuri intendendo sempre il suo lavoro come pratica civile volta a creare modelli di partecipazione del pubblico. Docente all’Accademia NABA, ha partecipato a importanti esposizioni a Kassel, Venezia, New York, San Paolo, Londra, Madrid.
What we want fa parte di un più ampio omonimo progetto che indaga con senso critico sul rapporto fra i grandi paesaggi urbani e le comunità che li abitano e che li modificano e ne sono a loro volta modificate. Come qui viene messo in evidenza, il fotografo si pone nel ruolo di osservatore della proiezione dei desideri collettivi sul paesaggio. Uomini e donne, lontani e quindi riconoscibili solo come folla e non come individui occupano la parte inferiore dell’immagine come schiacciati fra il flusso del traffico e il muro che li divide da un cantiere in costruzione su cui le loro figure in movimento si stagliano. Il cielo è là, lontano e quasi invisibile perché lo spazio della ripresa è completamente occupato da un inseguirsi di costruzioni, insegne pubblicitarie, edifici dalle finestre chiuse, grattacieli costruiti e in costruzione. È un disordine organizzato quello che ci appare o forse solo un ordine che la delicatezza cromatica dell’insieme rende sottilmente inquietante.
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Lot 55 Mimmo Jodice (1934) - Vedute di Napoli, Opera 10, 1980
cm 29 x 16,5
Stampa alla gelatina ai sali d'argento, stampata anni 1980/1990
Firmata e datata a penna nera al verso
ESPOSIZIONI
Esemplare in collezione permanente al Museo di Fotografia Contemporanea, fondo Lanfranco Colombo, Cinisello Balsamo (MI)
BIBLIOGRAFIA
Mimmo Jodice, Senza Tempo, Skira, Milano, 2024, p. 62
Mimmo Jodice, Vedute di Napoli, Mazzotta fotografia, Milan, 1980, p. 46
Mimmo Jodice (Napoli 1934) si interessa di arte, teatro, musica ed esordisce da autodidatta in disegno e pittura. Ciò lo avvicina nei primi anni ’60 alla fotografia che svolge sperimentando materiali, codici, linguaggi immerso come era nel clima delle neoavanguardie: lo respira nelle gallerie di Amelio, Trisorio, Rulla e lo fa proprio frequentando artisti come Warhol, De Dominicis, Beuys, Kosuth, Kounellis. Allarga gli interessi prima all’antropologia e poi a una nuova definizione dello spazio urbano che resta, assieme all’indagine sul mito, il suo fondamentale contributo all’immagine non documentaristica ribadita in mostre, libri e in riconoscimenti come le due lauree in architettura honoris causa in Italia e Svizzera.
Un bel titolo di una recente mostra personale definisce bene la ricerca di Mimmo Jodice perché l’enigma della luce è la caratteristica che ci aiuta a comprendere quel particolarissimo fascino che emana da immagini come quelle qui proposte. Per comprenderle bisogna risalire ai tempi in cui Jodice, per sua stessa ammissione, avendo accettato che il cambiamento in cui aveva creduto negli anni ’70 non era possibile, attua una svolta insieme etica ed estetica che lo porta a mostrare una Napoli senza persone ma non senza anima. Quello che va cercando diventa così una ricerca di quanto lo spazio sa raccontare, come è ben evidente nell’immagine quasi raggelante dell’Albergo dei poveri dove quel letto di ferro messo di traverso attira l’attenzione con una intensa forza evocatrice. Il senso di atemporalità e quella strana luce che spesso si sprigiona dalle forme giocando con le ombre caratterizza la seconda immagine così potente nel suo rigore compositivo. Sono due opere che si collocano, in una perfetta anche se non immediata evidente continuità, con i primi lavori di ricerca quando Jodice più che altro intendeva fotografare le idee.
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Lot 56 Mimmo Jodice (1934) - Napoli, Real Albergo dei poveri, 1999
cm 40,4 x 50,4 (cm 37 x 37 immagine ; cm 58 x 58 passepartout)
Stampa vintage alla geatina ai sali d'argento, montata su passepartout originale
Edizione 1 di 3
Firmata e datata a matita al passepartout recto e titolata, firmata, datata e numerata a matita al verso
Opera in cornice
PROVENIENZA
Arte Moderna e Contemporanea, Christie's Milano, 21 maggio 2007, lotto 379
BIBLIOGRAFIA
M. Jodice (a cura di), Reale albergo dei poveri, Federico Motta Editore, Milano, 1999, p. 91 (altro esemplare illustrato)
Mimmo Jodice (Napoli 1934) si interessa di arte, teatro, musica ed esordisce da autodidatta in disegno e pittura. Ciò lo avvicina nei primi anni ’60 alla fotografia che svolge sperimentando materiali, codici, linguaggi immerso come era nel clima delle neoavanguardie: lo respira nelle gallerie di Amelio, Trisorio, Rulla e lo fa proprio frequentando artisti come Warhol, De Dominicis, Beuys, Kosuth, Kounellis. Allarga gli interessi prima all’antropologia e poi a una nuova definizione dello spazio urbano che resta, assieme all’indagine sul mito, il suo fondamentale contributo all’immagine non documentaristica ribadita in mostre, libri e in riconoscimenti come le due lauree in architettura honoris causa in Italia e Svizzera.
Un bel titolo di una recente mostra personale definisce bene la ricerca di Mimmo Jodice perché l’enigma della luce è la caratteristica che ci aiuta a comprendere quel particolarissimo fascino che emana da immagini come quelle qui proposte. Per comprenderle bisogna risalire ai tempi in cui Jodice, per sua stessa ammissione, avendo accettato che il cambiamento in cui aveva creduto negli anni ’70 non era possibile, attua una svolta insieme etica ed estetica che lo porta a mostrare una Napoli senza persone ma non senza anima. Quello che va cercando diventa così una ricerca di quanto lo spazio sa raccontare, come è ben evidente nell’immagine quasi raggelante dell’Albergo dei poveri dove quel letto di ferro messo di traverso attira l’attenzione con una intensa forza evocatrice. Il senso di atemporalità e quella strana luce che spesso si sprigiona dalle forme giocando con le ombre caratterizza la seconda immagine così potente nel suo rigore compositivo. Sono due opere che si collocano, in una perfetta anche se non immediata evidente continuità, con i primi lavori di ricerca quando Jodice più che altro intendeva fotografare le idee.
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Lot 57 Massimo Listri (1955) - Aglié, 2007
cm 100 x 120
C-print vintage montata su dibond
Edizione 2 di 5
Titolata, numerata e firmata a pennarello nero al verso
Opera in cornice
Massimo Listri (Firenze, 1953) comincia a lavorare diciassettenne negli anni liceali ritraendo in bianco e nero grandi personaggi della cultura, ma presto la sua attenzione è rivolta alle architetture. L’incontro con l’editore Franco Maria Ricci segna una vera svolta nella sua carriera perché per la raffinata rivista FMR realizza servizi interpretando in esterni e soprattutto in interni i più bei palazzi pubblici e privati creando un archivio che gli ha permesso di pubblicare 80 libri con editori europei e statunitensi e di allestire moltissime mostre nelle più importanti istituzioni di tutto il mondo.
Massimo Listri non studia i luoghi che fotografa, preferisce farsi guidare dalle sue intuizioni e dalla sintonia con i soggetti derivante dall’amore che nutre per l’armonia e il bello. Anche se ora scatta con fotocamere digitali più maneggevoli, l’aver usato per anni il banco ottico gli ha insegnato una pregevole capacità compositiva ben evidenziata in queste due immagini di luoghi istituzionali che caratterizzano altrettante caratteristiche del suo stile, frutto di un lavoro accurato e di poche immagini molto studiate. Se nella ripresa del Castello ducale di Aglié nel Torinese, già residenza sabauda, gioca, come spesso fa, con le sfumature del bianco per esaltare una prospettiva che ha scelto essenziale, in quella di Montecitorio usa la naturale simmetria della grande sala per conferire all’immagine l’austerità che merita la sede del Parlamento. In entrambi i casi le grandi dimensioni delle immagini sono una consapevole scelta stilistica di Listri che consente di apprezzare appieno linee, ombre e particolari facendo così capire che, se la figura umana non compare, la sua presenza si sente sempre.
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Lot 58 Massimo Listri (1955) - Palazzo Montecitorio, 2009
cm 120 x 150
Stampa a getto d'inchiostro montata su dibond
Edizione 1 di 5
Titolata, numerata, firmata e datata a pennarello nero al verso
Opera in cornice
Massimo Listri (Firenze, 1953) comincia a lavorare diciassettenne negli anni liceali ritraendo in bianco e nero grandi personaggi della cultura, ma presto la sua attenzione è rivolta alle architetture. L’incontro con l’editore Franco Maria Ricci segna una vera svolta nella sua carriera perché per la raffinata rivista FMR realizza servizi interpretando in esterni e soprattutto in interni i più bei palazzi pubblici e privati creando un archivio che gli ha permesso di pubblicare 80 libri con editori europei e statunitensi e di allestire moltissime mostre nelle più importanti istituzioni di tutto il mondo.
Massimo Listri non studia i luoghi che fotografa, preferisce farsi guidare dalle sue intuizioni e dalla sintonia con i soggetti derivante dall’amore che nutre per l’armonia e il bello. Anche se ora scatta con fotocamere digitali più maneggevoli, l’aver usato per anni il banco ottico gli ha insegnato una pregevole capacità compositiva ben evidenziata in queste due immagini di luoghi istituzionali che caratterizzano altrettante caratteristiche del suo stile, frutto di un lavoro accurato e di poche immagini molto studiate. Se nella ripresa del Castello ducale di Aglié nel Torinese, già residenza sabauda, gioca, come spesso fa, con le sfumature del bianco per esaltare una prospettiva che ha scelto essenziale, in quella di Montecitorio usa la naturale simmetria della grande sala per conferire all’immagine l’austerità che merita la sede del Parlamento. In entrambi i casi le grandi dimensioni delle immagini sono una consapevole scelta stilistica di Listri che consente di apprezzare appieno linee, ombre e particolari facendo così capire che, se la figura umana non compare, la sua presenza si sente sempre.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito -
Lot 59 Nino Migliori (1926) - Il Tuffatore, 1951
cm 30,3 x 40,2
Stampa alla gelatina ai sali d'argento, stampata anni 1980
Titolata, datata e firmata a matita al verso
Opera in cornice
PROVENIENZA
Keith De Lellis Gallery, New York
BIBLIOGRAFIA
Segni: Nino Migliori, Damiani Editore, Bologna, 2004, p. 11
A. Mauro e D. Curti (a cura di), Nino Migliori, La materia dei sogni, Contrasto, Roma, 2012, pp. 64-65
MART.LA FOTOGRAFIA DELLA COLLEZIONE TREVISAN. Con gli occhi, con il cuore, con la testa, Silvana Editoriale, Milano 2012, p. 105
Nino Migliori (Bologna 1926) è un autore dotato di una straordinaria vitalità e di un desiderio di ricerca così’ intenso da averlo portato, fin dal 1948 quando ha iniziato la sua carriera professionale, a lavorare su due linee parallele. Da un lato si è espresso con immagini classiche nello stile della straight photography e dall’altro, avendo frequentato l’ambiente veneziano di Peggy Guggenheim, ha sviluppato una incessante ricerca sui mezzi e i materiali come anche sul rapporto con il concettualismo, l’informale e le avanguardie storiche come dimostra la creazione nel 1982 del gruppo di ispirazione futurista Abrecal. Impossibile qui ricordare tutte le mostre esposte in tutto il mondo, i volumi monografici, l’attività didattica svolta nelle università come scuole d’infanzia e quella di incessante organizzatore culturale. Dal 2016 ha istituito una Fondazione che porta il suo nome.
Le due fotografie che qui presentiamo raccontano con immediata efficacia le due linee espressive che Nino Migliori ha sempre perseguito facendolo, è bene sottolinearlo, in contemporanea. Inserito nella serie “Gente dell’Emilia”, parte con “Gente del Nord” e “Gente del Sud” della trilogia di gusto neorealista realizzata negli anni ’50, Il tuffatore a un certo punto assume un po’ inaspettatamente una sua forte autonomia fino a diventare una delle fotografie più note (e richieste) del fotografo bolognese anche per la sua capacità di coniugare la classicità di un garbato bianco e nero con l’originalità di una ripresa dotata di una audace contemporaneità. Questa splendida Ossidazione – decidiamo di chiamarla con il termine che indica la tecnica usata per realizzarla nonostante come ogni opera astratta orgogliosamente rifiuti un titolo – appartiene all’ampia e variegata serie di ricerche perseguite da Migliori. Si passa da quelle pescate dalla storia come i collage, i fotogrammi, i cliché-verre, le immagini realizzate con il foro stenopeico e i calotipi alle elaborazioni Polaroid. Questo senza dimenticare idrogrammi, pirogrammi, lucigrammi, fotografie realizzate a lume di candela o inserite in candele. Per dimostrare che la fantasia non conosce confini.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito -
Lot 60 Nino Migliori (1926) - Senza titolo (Ossidazione), 1973
cm 39,5 x 30
Stampa cromogenica vintage
Firmata e datata con 21/250 a penna nera sull'immagine
Nino Migliori (Bologna 1926) è un autore dotato di una straordinaria vitalità e di un desiderio di ricerca così’ intenso da averlo portato, fin dal 1948 quando ha iniziato la sua carriera professionale, a lavorare su due linee parallele. Da un lato si è espresso con immagini classiche nello stile della straight photography e dall’altro, avendo frequentato l’ambiente veneziano di Peggy Guggenheim, ha sviluppato una incessante ricerca sui mezzi e i materiali come anche sul rapporto con il concettualismo, l’informale e le avanguardie storiche come dimostra la creazione nel 1982 del gruppo di ispirazione futurista Abrecal. Impossibile qui ricordare tutte le mostre esposte in tutto il mondo, i volumi monografici, l’attività didattica svolta nelle università come scuole d’infanzia e quella di incessante organizzatore culturale. Dal 2016 ha istituito una Fondazione che porta il suo nome.
Le due fotografie che qui presentiamo raccontano con immediata efficacia le due linee espressive che Nino Migliori ha sempre perseguito facendolo, è bene sottolinearlo, in contemporanea. Inserito nella serie “Gente dell’Emilia”, parte con “Gente del Nord” e “Gente del Sud” della trilogia di gusto neorealista realizzata negli anni ’50, Il tuffatore a un certo punto assume un po’ inaspettatamente una sua forte autonomia fino a diventare una delle fotografie più note (e richieste) del fotografo bolognese anche per la sua capacità di coniugare la classicità di un garbato bianco e nero con l’originalità di una ripresa dotata di una audace contemporaneità. Questa splendida Ossidazione – decidiamo di chiamarla con il termine che indica la tecnica usata per realizzarla nonostante come ogni opera astratta orgogliosamente rifiuti un titolo – appartiene all’ampia e variegata serie di ricerche perseguite da Migliori. Si passa da quelle pescate dalla storia come i collage, i fotogrammi, i cliché-verre, le immagini realizzate con il foro stenopeico e i calotipi alle elaborazioni Polaroid. Questo senza dimenticare idrogrammi, pirogrammi, lucigrammi, fotografie realizzate a lume di candela o inserite in candele. Per dimostrare che la fantasia non conosce confini.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito -
Lot 61 Carlo Mollino (1905 - 1973) - Senza titolo, 1962/1973
cm 10,8 x 8,5
Polaroid applicata a cartoncino originale
Opera in cornice
Opera unica
PROVENIENZA
Design, Artcurial, Parigi, 1 dicembre 2015, lotto 276
ESPOSIZIONI
Carlo Mollino, Arabesques, Castello di Rivoli, Museo d'Arte Contemporanea, 2006/2007
BIBLIOGRAFIA
F. Ferrari, N. Ferrari, Carlo Mollino, Arabesques, Electa, Verona, 2006. Reproduit p. 274
Carlo Mollino (Torino 1905 - 1973) è stato un personaggio intrepido che sfugge a ogni semplice definizione perché all’attività di grande e innovativo architetto ha accostato quella di pilota di aerei e automobili da corsa, di designer e di maestro di sci. Dal padre ingegnere ereditò la passione per la fotografia, ennesimo settore in cui eccelse sia come teorico (“Il messaggio della camera oscura” edito da Chiantore nel 1949 è un fondamentale libro di storia ed estetica) che come autore dapprima di riprese di architettura e di interni sia in bianco e nero, sia a colori e poi di ritratti e nudi femminili realizzati con pellicole Polaroid.
Fra il 1956 e la metà degli anni ’70 Mollino fotografa sistematicamente il mondo femminile creando una vera e propria galleria di riprese che non si fermano sulla soglia dell’erotismo comunque presente, ma occhieggiano con raffinatezza a richiami surrealisti. Come le tante donne, amiche, conoscenti occasionali, modelle che si sono avvicendate nella casa studio di Mollino, anche la protagonista di questa fotografia incarna i moduli di un intero immaginario erotico: la nudità è esibita con una disinvoltura che prevede comunque una postura elegante, la pelliccia su cui la ragazza siede è invitante, le scarpe che rappresentano l’unico elemento indossato sono un’allusione feticista, l’illuminazione calda crea un’atmosfera intima mentre la donna più che “guardare in macchina” fissa lo sguardo diretto su di noi con una semplicità carica di sensualità.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito -
Lot 62 Riccardo Moncalvo (1915 - 2008) - Sul bordo, Leo Gasperl sul ghiacciaio di Ventina, 1950/1951
cm 19,5 x 29,8
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Titolata a penna blu, timbro del fotografo e timbro didascalico Archivio Riccardo Moncalvo con firma al verso
BIBLIOGRAFIA
B. Bergaglio (a cura di), Riccardo Moncalvo Fotografie 1932-1990, Dario Cimorelli Editore 2025, pp. 50, 51
Riccardo Moncalvo (Torino 1915 – 2008) ha sempre coniugato lavoro professionale svolto nell’Atelier di Fotografia Artistica e Industriale fondato nel 1925 dal padre Carlo Emilio e ricerca personale. Membro della storica Società Fotografica Subalpina, inizia pubblicando sul prestigioso “Annuario Luci e Ombre”. Ingegnoso anche dal punto di vista tecnico fu fra i primi in Italia a utilizzare la maneggevole fotocamera Leica su cui applicò una torretta girevole per utilizzare più rapidamente tre obiettivi di diverse lunghezze focali. Ha lavorato per architetti come Calo Mollino ed Ettore Sottsass e pubblicato diversi volumi. Il suo laboratorio è stato fra i primi a realizzare, nel dopoguerra, le prime stampe fotografiche professionali.
All’inizio della sua carriera il fotografo torinese era vicino all’estetica romantica che poi abbandona, come qui si può facilmente constatare, per avvicinarsi a un tipo di immagine più asciutta e moderna frutto dei suggerimenti provenienti dal movimento della Nuova Oggettività. L’essenzialità dei segni e il geometrismo sono elementi ben presenti in Sul bordo, una fotografia che affronta uno dei soggetti cari a Moncalvo cioè la montagna. Lo fa con una immagine pregevolissima già a partire dalla scelta del punto di osservazione che crea una cornice al cui interno si trova la figura dell’alpinista la cui postura leggermente spostata all’indietro si inserisce in una originale composizione che attraversa diagonalmente lo spazio. Attraversata da uno spirito ancor più contemporanea è La vetrinista dove si nota non solo la grande capacità dell’autore nella gestione del colore ma anche quella di costruire una scena di sapore teatrale con il primo piano delle figure che scorrono indefinite, la parte sinistra dell’immagine che fa intravvedere una fuga prospettica e la ragazza che, pur seduta dando le spalle al fotografo, assurge al ruolo di elegante protagonista.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito -
Lot 63 Riccardo Moncalvo (1915 - 2008) - La vetrinista, Salisburgo, 1952
cm 20 x 29
Stampa cromogenica vintage
Timbro del fotografo al verso
ESPOSIZIONI
II mostra Nazionale di Fotografia Artistica, Ciriè 1959
Salone della Toro Assicurazioni, 99 fotografie di Riccardo Moncalvo, Torino 1976
Galleria d’arte Pirra, Moncalvo o il ritratto delle cose, Torino 1993
BIBLIOGRAFIA
La Fotografia di Riccardo Moncalvo, Tipografia torinese Editrice, Torino 1976
Riccardo Moncalvo (Torino 1915 – 2008) ha sempre coniugato lavoro professionale svolto nell’Atelier di Fotografia Artistica e Industriale fondato nel 1925 dal padre Carlo Emilio e ricerca personale. Membro della storica Società Fotografica Subalpina, inizia pubblicando sul prestigioso “Annuario Luci e Ombre”. Ingegnoso anche dal punto di vista tecnico fu fra i primi in Italia a utilizzare la maneggevole fotocamera Leica su cui applicò una torretta girevole per utilizzare più rapidamente tre obiettivi di diverse lunghezze focali. Ha lavorato per architetti come Calo Mollino ed Ettore Sottsass e pubblicato diversi volumi. Il suo laboratorio è stato fra i primi a realizzare, nel dopoguerra, le prime stampe fotografiche professionali.
All’inizio della sua carriera il fotografo torinese era vicino all’estetica romantica che poi abbandona, come qui si può facilmente constatare, per avvicinarsi a un tipo di immagine più asciutta e moderna frutto dei suggerimenti provenienti dal movimento della Nuova Oggettività. L’essenzialità dei segni e il geometrismo sono elementi ben presenti in Sul bordo, una fotografia che affronta uno dei soggetti cari a Moncalvo cioè la montagna. Lo fa con una immagine pregevolissima già a partire dalla scelta del punto di osservazione che crea una cornice al cui interno si trova la figura dell’alpinista la cui postura leggermente spostata all’indietro si inserisce in una originale composizione che attraversa diagonalmente lo spazio. Attraversata da uno spirito ancor più contemporanea è La vetrinista dove si nota non solo la grande capacità dell’autore nella gestione del colore ma anche quella di costruire una scena di sapore teatrale con il primo piano delle figure che scorrono indefinite, la parte sinistra dell’immagine che fa intravvedere una fuga prospettica e la ragazza che, pur seduta dando le spalle al fotografo, assurge al ruolo di elegante protagonista.
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Lot 64 Paolo Monti (1908 - 1982) - Calle Veneziana, 1950s/1960s
cm 28,4 x 23,2
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Timbro del fotografo al verso
BIBLIOGRAFIA
I. Zannier, P. Mainardis de Campo (a cura di), San Francisco Venezia Immagini di due città, catalogo della mostra (Scuola Grande dei Carmini di Venezia, 4 settembre - 31 ottobre 1982) Scuola Grande dei Carmini, Venezia 1982, p. 18
Paolo Monti (Novara 1908 – Milano 1982) laureato in economia, per lavorare al Consorzio Agrario del Veneto si trasferisce a Venezia dove condivide la sua passione per la fotografia con un gruppo di amici con cui, spinto dalla notizia della fondazione del gruppo milanese della Bussola, fonda nel 1948 il circolo la Gondola, portandolo a diventare un importante punto di riferimento e a scoprire autori come Fulvio Roiter. Nel 1953 si trasferisce a Milano e da professionista documenta i cambiamenti della città, pubblica su riviste e libri, collabora con case editrici e dal 1965 realizza una originale analisi del territorio urbano di Bologna in collaborazione con l’architetto Cervellati. Nel 1967 la galleria milanese il Diaframma inaugura con una sua mostra di chimigrammi e fotografie astratte.
Vivendo in una delle città costantemente fotografata, Paolo Monti ha sempre scelto di farlo evitando programmaticamente ogni retorica e ogni aspetto di quella visione rassicurante cara ai turisti. Con il suo deciso bianco e nero, si muove al di fuori dei circuiti più noti per indagare le zone più popolari, gli scorci più vicini alla realtà, i muri su cui i manifesti si strappano dilavati dall’umidità. Nella ripresa di una calle gioca fra le luci che attraversano la trasparenza dei panni stesi e la loro ombra che si allunga a terra, lascia che lo sguardo scorra sulla tormentata parete di destra per finire sullo sfondo dove una figura femminile si muove leggera. Ironica e pensosa è, invece, La domenica degli immigrati, perché quello che poteva essere un classico esercizio foto amatoriale diventa una sintesi efficace delle contraddizioni del mondo che stava sorgendo dal dopoguerra: da un lato i grandi flussi migratori interni e dall’altra i segnali di una industrializzazione che col benessere portava, come le colonne di fumo mostrano e simboleggiano, anche danni all’ambiente. In questa immagine si scorgono le influenze non solo estetiche della fotografia americana della Farm Security Administration a lui ben nota.
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Lot 65 Paolo Monti (1908 - 1982) - La domenica degli immigrati, 1954
cm 23 x 28,7
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Titolata e datata a matita con timbri del fotografo al verso
BIBLIOGRAFIA
P. Monti (edited by), Milano negli anni Cinquanta, Istituto di Fotografia Paolo Monti, Milano, 1986, p. 127
G. Chiaramonte (edited by), Paolo Monti Fotografie 1950-1980, Federico Motta Editore, Milano, 1983, pl. 72
Paolo Monti (Novara 1908 – Milano 1982) laureato in economia, per lavorare al Consorzio Agrario del Veneto si trasferisce a Venezia dove condivide la sua passione per la fotografia con un gruppo di amici con cui, spinto dalla notizia della fondazione del gruppo milanese della Bussola, fonda nel 1948 il circolo la Gondola, portandolo a diventare un importante punto di riferimento e a scoprire autori come Fulvio Roiter. Nel 1953 si trasferisce a Milano e da professionista documenta i cambiamenti della città, pubblica su riviste e libri, collabora con case editrici e dal 1965 realizza una originale analisi del territorio urbano di Bologna in collaborazione con l’architetto Cervellati. Nel 1967 la galleria milanese il Diaframma inaugura con una sua mostra di chimigrammi e fotografie astratte.
Vivendo in una delle città costantemente fotografata, Paolo Monti ha sempre scelto di farlo evitando programmaticamente ogni retorica e ogni aspetto di quella visione rassicurante cara ai turisti. Con il suo deciso bianco e nero, si muove al di fuori dei circuiti più noti per indagare le zone più popolari, gli scorci più vicini alla realtà, i muri su cui i manifesti si strappano dilavati dall’umidità. Nella ripresa di una calle gioca fra le luci che attraversano la trasparenza dei panni stesi e la loro ombra che si allunga a terra, lascia che lo sguardo scorra sulla tormentata parete di destra per finire sullo sfondo dove una figura femminile si muove leggera. Ironica e pensosa è, invece, La domenica degli immigrati, perché quello che poteva essere un classico esercizio foto amatoriale diventa una sintesi efficace delle contraddizioni del mondo che stava sorgendo dal dopoguerra: da un lato i grandi flussi migratori interni e dall’altra i segnali di una industrializzazione che col benessere portava, come le colonne di fumo mostrano e simboleggiano, anche danni all’ambiente. In questa immagine si scorgono le influenze non solo estetiche della fotografia americana della Farm Security Administration a lui ben nota.
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Lot 66 Ugo Mulas (1928 - 1973) - Marcel Duchamp, New York, 1965/1967
cm 36,8 x 25,3
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento, montata su alluminio e stampata nel 1972
BIBLIOGRAFIA
Castagnoli, Italiano, Mattirolo (a cura di), Ugo Mulas. La scena dell'arte, Electa 2007, pp. 324-333
Opera accompagnata da Certificato d'autenticità rilasciato dall' Archivio Ugo Mulas, Milano
Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia 1928 – Milano 1973) frequenta l’ambiente artistico milanese che ruota attorno al bar Jamaica dove conosce Mario Dondero e inizia una carriera figlia dei molti interessi: reporter per L’illustrazione Italiana e fotografo di scena per il Piccolo Teatro, documentando la Biennale di Venezia dal 1954 al 1972 si lega ad artisti come Alberto Burri, Lucio Fontana, Alik Cavaliere, Fausto Melotti. I viaggi nei primi anni ’60 negli Usa da cui nasce il volume “New York arte e persone” gli fanno conoscere Andy Warhol, Robert Raushenberg, Lee Friedlander, Robert Frank. Partecipa a manifestazioni delle neoavanguardie dirette da Luciano Caramel (Campo Urbano, Como 1969) e Paul Restany (Noveau Réalisme, Milano 1970). Una profonda riflessione sul ruolo della fotografia influenzata dal contributo teorico di Marcel Duchamp lo induce al lavoro metafotografico “Le verifiche” pubblicato nel 1972 da Einaudi. I suoi lavori, esposti in spazi museali di tutta Europa, e le sue numerose monografie sono curati dall’archivio milanese curato dalle figlie Melina e Valentina.
Il rapporto che Ugo Mulas ha stabilito con Lucio Fontana è di lunga data e questo consente al fotografo una complicità con l’artista emersa nella celebre sequenza del 1964 “L’attesa” con il taglio della tela. Qui, invece, il fotografo mostra quella sua abilità nel riprodurre le opere acquisita con la frequentazione degli studi di pittori e scultori. Queste tre stampe divengono così un efficace richiamo al lavoro artistico del grande maestro dello Spazialismo: si riconoscono tre celebri concetti spaziali del 1965 intitolati “Teatrini” perché composti da tele monocrome forate inserite in cornici sagomate che sono parti integranti delle opere. Il ritratto realizzato a Marcel Duchamp – più volte pubblicato nelle più importanti monografie – fa parte di un’ampia serie di riprese realizzate a New York in esterni in Washington Square, all’interno del Museum of Modern Art di fronte al suo celebre “Grande vetro” che osserva con distacco e, come nel nostro caso, nella sua casa. È lo stesso Mulas a ricordare che di Duchamp gli interessava mettere in evidenza “gli atteggiamenti del non fare” e “mettere in evidenza la sua rinuncia”. Così lo coglie mentre, seduto sulla sua famosa poltrona, getta uno sguardo sulla fotografia che lo ritrae mentre gioca a scacchi con una donna nuda. Per la cronaca era stata realizzata nel 1963 al Museo d’arte di Pasadena, L.A., dove Walter Hopps aveva curato la prima retrospettiva americana dell’artista. L’autore dell’immagine, Julian Wasser, durante l’inaugurazione chiese alla ventenne amica Eva Babliz di posare nuda in omaggio all’arte provocatoria di Duchamp, cosa che lei, figlia di un’artista, fece con trasporto.
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Lot 67 Ugo Mulas (1928 - 1973) - Lucio Fontana, Concetto Spaziale, 1960s
cm 25 x 21 (cm 19 x 19) circa ciascuna
Tre stampe vintage alla gelatina ai sali d'argento
Timbro del fotografo al verso di ciascuna
Opera in cornice
Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia 1928 – Milano 1973) frequenta l’ambiente artistico milanese che ruota attorno al bar Jamaica dove conosce Mario Dondero e inizia una carriera figlia dei molti interessi: reporter per L’illustrazione Italiana e fotografo di scena per il Piccolo Teatro, documentando la Biennale di Venezia dal 1954 al 1972 si lega ad artisti come Alberto Burri, Lucio Fontana, Alik Cavaliere, Fausto Melotti. I viaggi nei primi anni ’60 negli Usa da cui nasce il volume “New York arte e persone” gli fanno conoscere Andy Warhol, Robert Raushenberg, Lee Friedlander, Robert Frank. Partecipa a manifestazioni delle neoavanguardie dirette da Luciano Caramel (Campo Urbano, Como 1969) e Paul Restany (Noveau Réalisme, Milano 1970). Una profonda riflessione sul ruolo della fotografia influenzata dal contributo teorico di Marcel Duchamp lo induce al lavoro metafotografico “Le verifiche” pubblicato nel 1972 da Einaudi. I suoi lavori, esposti in spazi museali di tutta Europa, e le sue numerose monografie sono curati dall’archivio milanese curato dalle figlie Melina e Valentina.
Il rapporto che Ugo Mulas ha stabilito con Lucio Fontana è di lunga data e questo consente al fotografo una complicità con l’artista emersa nella celebre sequenza del 1964 “L’attesa” con il taglio della tela. Qui, invece, il fotografo mostra quella sua abilità nel riprodurre le opere acquisita con la frequentazione degli studi di pittori e scultori. Queste tre stampe divengono così un efficace richiamo al lavoro artistico del grande maestro dello Spazialismo: si riconoscono tre celebri concetti spaziali del 1965 intitolati “Teatrini” perché composti da tele monocrome forate inserite in cornici sagomate che sono parti integranti delle opere. Il ritratto realizzato a Marcel Duchamp – più volte pubblicato nelle più importanti monografie – fa parte di un’ampia serie di riprese realizzate a New York in esterni in Washington Square, all’interno del Museum of Modern Art di fronte al suo celebre “Grande vetro” che osserva con distacco e, come nel nostro caso, nella sua casa. È lo stesso Mulas a ricordare che di Duchamp gli interessava mettere in evidenza “gli atteggiamenti del non fare” e “mettere in evidenza la sua rinuncia”. Così lo coglie mentre, seduto sulla sua famosa poltrona, getta uno sguardo sulla fotografia che lo ritrae mentre gioca a scacchi con una donna nuda. Per la cronaca era stata realizzata nel 1963 al Museo d’arte di Pasadena, L.A., dove Walter Hopps aveva curato la prima retrospettiva americana dell’artista. L’autore dell’immagine, Julian Wasser, durante l’inaugurazione chiese alla ventenne amica Eva Babliz di posare nuda in omaggio all’arte provocatoria di Duchamp, cosa che lei, figlia di un’artista, fece con trasporto.
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Lot 68 Carlo Naya (attribuito a) (1816 - 1882) - Venezia, Ponte dei Sospiri, 1860s
cm 54 x 42,5 (cm 55,4 x 44,3 cartoncino)
Stampa all'albumina colorata a mano e applicata a cartoncino
Opera unica
Titolo da negativo sull'immagine
Carlo Naya (Tronzano Vercellese, Vercelli 1816 – Venezia 1882) erede di un ricco proprietario terriero dopo la laurea in legge, da appassionato d’arte, compie un grand tour in Europa, Asia, Egitto. Scoperta la fotografia a Parigi, apre uno studio a Costantinopoli, ma nel 1857 è a Venezia dove lavora nell’atelier di Carlo Ponti, poi nei propri di piazza San Marco e Campo San Maurizio e nel negozio alle Procuratie che ottengono un grande successo commerciale e apprezzamenti per la qualità tecnica ed estetica delle sue opere. Un famoso processo “per contraffazione” vinto contro alcuni colleghi che vendevano come proprie le sue fotografie diede vita alla legge sul diritto d’autore.
Due elementi caratterizzano lo stile di Carlo Naya: la cultura che gli veniva dalla passione per l’arte raffinata dalla visione diretta delle opere dell’antichità compresa quella Cappella degli Scrovegni patavina che avrebbe magnificamente riprodotto; la padronanza tecnica acquisita già ai tempi del dagherrotipo che gli permise di affermarsi rapidamente a livello internazionale per le sue accuratissime vedute veneziane. Se altri fotografi spesso di limitavano a una precisa visione, Naya si segnalava per la scelta di realizzare stampe di grandi dimensioni definite extragrand o impérial e per l’abilità con cui interveniva colorandole, come è molto evidente nella fotografia del Ponte dei Sospiri. Ancora più interessante e spettacolare è la ripresa di Piazza San Marco con le Procuratie e Palazzo Ducale che fanno da quinte. Qui dà il meglio di sé nella sua specialità della stampa cosiddetta “al chiaro di luna” ottenuta montando a registro due negativi – uno della ripresa diurna e una del cielo da cui occhieggia il sole – e poi stampando su carte colorate per ottenere un effetto notturno.
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Lot 69 Carlo Naya (attribuito a) (1816 - 1882) - Senza titolo (Venezia, chiaro di luna), 1870s
cm 42,5 x 55,5
Stampa all'albumina colorata a mano
Opera unica
Carlo Naya (Tronzano Vercellese, Vercelli 1816 – Venezia 1882) erede di un ricco proprietario terriero dopo la laurea in legge, da appassionato d’arte, compie un grand tour in Europa, Asia, Egitto. Scoperta la fotografia a Parigi, apre uno studio a Costantinopoli, ma nel 1857 è a Venezia dove lavora nell’atelier di Carlo Ponti, poi nei propri di piazza San Marco e Campo San Maurizio e nel negozio alle Procuratie che ottengono un grande successo commerciale e apprezzamenti per la qualità tecnica ed estetica delle sue opere. Un famoso processo “per contraffazione” vinto contro alcuni colleghi che vendevano come proprie le sue fotografie diede vita alla legge sul diritto d’autore.
Due elementi caratterizzano lo stile di Carlo Naya: la cultura che gli veniva dalla passione per l’arte raffinata dalla visione diretta delle opere dell’antichità compresa quella Cappella degli Scrovegni patavina che avrebbe magnificamente riprodotto; la padronanza tecnica acquisita già ai tempi del dagherrotipo che gli permise di affermarsi rapidamente a livello internazionale per le sue accuratissime vedute veneziane. Se altri fotografi spesso di limitavano a una precisa visione, Naya si segnalava per la scelta di realizzare stampe di grandi dimensioni definite extragrand o impérial e per l’abilità con cui interveniva colorandole, come è molto evidente nella fotografia del Ponte dei Sospiri. Ancora più interessante e spettacolare è la ripresa di Piazza San Marco con le Procuratie e Palazzo Ducale che fanno da quinte. Qui dà il meglio di sé nella sua specialità della stampa cosiddetta “al chiaro di luna” ottenuta montando a registro due negativi – uno della ripresa diurna e una del cielo da cui occhieggia il sole – e poi stampando su carte colorate per ottenere un effetto notturno. -
Lot 70 Arrigo Orsi (1897 - 1968) - Senza titolo (Gioco di luce), 1950s
cm 22,5 x 18,5
Stampa Dye Transfer vintage
Timbro Opera Vintage copyright by archivio opera Arrigo Orsi al verso
Arrigo Orsi (Virgilio, Mantova 1897 - 1967) appartiene a quel genere di fotografi non professionisti capaci di grandi abilità professionali. Medico tisiologo e docente universitario, è socio del Circolo Fotografico Milanese da cui esce nel 1950 seguendo Pietro Donzelli all’Unione Fotografica – importante gruppo che porterà in Italia mostre internazionali – di cui sarà direttore. La sua produzione è eterogenea: si passa da paesaggi, ritratti e immagini di impegno sociale a ricerche di un astrattismo geometrico che risentono dell’estetica del Bauhaus.
Osservando queste due fotografie sembra difficile attribuirle allo stesso autore perché gli unici elementi che le accomunano sono la grande cura per la stampa e un gusto evidente per la ricerca. La spiegazione sta nel fatto che Arrigo Orsi era soprattutto un uomo carico di curiosità: questa lo spingeva a elaborare gli spunti legati alla classica estetica dominante nella seconda metà degli anni ’30 quando cominciò a fotografare come è evidente in questo nudo di gusto espressionista. L’amicizia con Luigi Veronesi – maestro dell’astrattismo in fotografia come in pittura e grafica – coltivata anche nella comune militanza nell’Unione fotografica, lo spinge a una ricerca sul dinamismo delle forme che altri in Europa elaboravano in bianco e nero. Anche Orsi le realizza ma a queste ne accostava altre inscritte nel perimetro espressivo del colore: in questo caso è fra i primi, fin dagli anni ’40, a fare ricorso a una raffinata e complessa tecnica di stampa sottrattiva commercializzata da Kodak, il Dye Transfer che permette di ottenere, mettendo a registro tre negativi, opere di una ineccepibile qualità cromatica.
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Lot 71 Arrigo Orsi (1897 - 1968) - Senza titolo (Nudo), 1950s/1960s
cm 24,3 x 18
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Timbri Opera VINTAGE copyright by archivio opera Arrigo Orsi al verso
Arrigo Orsi (Virgilio, Mantova 1897 - 1967) appartiene a quel genere di fotografi non professionisti capaci di grandi abilità professionali. Medico tisiologo e docente universitario, è socio del Circolo Fotografico Milanese da cui esce nel 1950 seguendo Pietro Donzelli all’Unione Fotografica – importante gruppo che porterà in Italia mostre internazionali – di cui sarà direttore. La sua produzione è eterogenea: si passa da paesaggi, ritratti e immagini di impegno sociale a ricerche di un astrattismo geometrico che risentono dell’estetica del Bauhaus.
Osservando queste due fotografie sembra difficile attribuirle allo stesso autore perché gli unici elementi che le accomunano sono la grande cura per la stampa e un gusto evidente per la ricerca. La spiegazione sta nel fatto che Arrigo Orsi era soprattutto un uomo carico di curiosità: questa lo spingeva a elaborare gli spunti legati alla classica estetica dominante nella seconda metà degli anni ’30 quando cominciò a fotografare come è evidente in questo nudo di gusto espressionista. L’amicizia con Luigi Veronesi – maestro dell’astrattismo in fotografia come in pittura e grafica – coltivata anche nella comune militanza nell’Unione fotografica, lo spinge a una ricerca sul dinamismo delle forme che altri in Europa elaboravano in bianco e nero. Anche Orsi le realizza ma a queste ne accostava altre inscritte nel perimetro espressivo del colore: in questo caso è fra i primi, fin dagli anni ’40, a fare ricorso a una raffinata e complessa tecnica di stampa sottrattiva commercializzata da Kodak, il Dye Transfer che permette di ottenere, mettendo a registro tre negativi, opere di una ineccepibile qualità cromatica.
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Lot 72 Dino Pedriali (1950 - 2021) - Pier Paolo Pasolini, 1975
cm 40,2 x 29,8
Stampa vintage alla gelatina ai sali d'argento
Datata e firmata a penna nera con impronta digitale del fotografo al verso
BIBLIOGRAFIA
L. Inga Pin (a cura di), Dino Pedriali, Raron Book, Milano, 1978
D. Pedriali (a cura di), Pier Paolo Pasolini, fotografie di Dino Pedriali, Johan&Levi, Monza, 2011
Dino Pedriali (Roma 1950 - 2021) inizia giovanissimo la sua carriera e, lavorando alla galleria Il Fauno di Torino, frequenta il mondo dell’arte. Diventa così assistente di Man Ray di cui documenta la casa-studio parigina, collabora con Andy Warhol e ritrae con grande intensità personaggi come De Chirico, Moravia, Fellini come giovani anonimi con uno stile così intenso da essere definito caravaggesco dal critico Peter Weiermair. Nonostante i molti lavori e le mostre internazionali, Pedriali è passato alla storia della fotografia per il sodalizio con Pier Paolo Pasolini a cui scattò le ultime fotografie il giorno precedente la tragica morte.
Queste due fotografie sono emblematiche del rapporto che Pedriali ha stabilito con Pasolini. Quella in cui il regista, osservato e ripreso da lontano come da sua espressa volontà, appare nudo nella sua camera da letto è stata scattata all’interno del buen ritiro della Torre di Chia nel viterbese (vero nome Castello di Corte Casale) composta da una casa con tetto di vetro che illuminava lo studio e una torre non abitabile. Qui Pasolini lavorava al suo romanzo “Petrolio” prevedendo di corredarlo con le fotografie di Pedriali che, nel suo quotidiano scrutarlo, ne aveva colto – spiegava il fotografo – la profonda solitudine. Diversa la storia del primo piano che Pedriali stesso ricorda: lo scrittore si era messo in quella bella posa con il primo piano del pugno e lo sguardo penetrante ma vi era rimasto per pochissimi secondi. Con prontezza, mentre modificava la posizione della macchina da verticale a orizzontale, il fotografo ebbe la prontezza di realizzare lo scatto che sarebbe diventato iconico anche per una strana ragione. Lo stampatore per errore graffiò con la pinzetta il negativo, così ogni stampa reca i segni del ritocco come una cicatrice sulla fronte di Pasolini.
Questo lotto è soggetto a diritto di seguito