Lotto 302 | Guido Reni (1575 - 1642) San Francesco

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LA GIOIA A COLORI. VENETO BANCA ATTO II - I CAPOLAVORI Sessione unica
giovedì 29 febbraio 2024 ore 18:00 (UTC +01:00)

Guido Reni (1575 - 1642) San Francesco

Guido Reni (1575 - 1642)
San Francesco
Olio su tela
183,2 x 136 cm
Elementi distintivi: sul verso, etichetta recente, con riferimento all'opera
Provenienza: Banca Popolare di Asolo e Montebelluna (dal 1993); Veneto Banca SpA in LCA
Certificati: certificato di Paolo Viancini, s.d.; scheda critica di Daniele Benati, del 26 luglio 2021; scheda critica di Massimo Pulini, del 7 agosto 2021
Stato di conservazione. Supporto: 80% (reintelo)
Stato di conservazione. Superficie: 75% (abrasioni, spuliture, integrazioni e ritocchi, anche sul viso del santo)

Il dipinto è stato acquisito da Veneto Banca nel 1993 e da allora è stato conservato in caveau. Inedita, l'opera è stata oggetto di un'ampia indagine critica in sede di catalogazione, con un giudizio prevalentemente orientato nel riconoscervi un capolavoro di Guido Reni.
Per Daniele Benati, che vi ha dedicato una approfondita scheda critica e intende presentare l'opera anche in sede scientifica, «Il bellissimo dipinto appartiene senza dubbio a Guido Reni, trovando immediato riscontro con altre sue opere già note non soltanto per il tipo di composizione, ma soprattutto per la suprema raffinatezza della conduzione pittorica, ineguagliata da nessuno dei suoi allievi, per quanto dotati.» Lo studioso data l'opera «agli inoltrati anni Trenta del XVII secolo» sia rapportandola al dipinto di analogo soggetto della Galleria Colonna e al Pallione della peste del 1631 (Bologna, Pinacoteca Nazionale) sia in ragione dello «addolcimento della stesura che Guido vi consegue, in ordine a quella progressiva “smaterializzazione” dell’immagine che anima tutta la sua feconda carriera», non mancando di segnalare che rispetto «alle versioni note, anche l’atteggiamento con cui il santo è raffigurato punta in direzione di una maggiore introspezione psicologica: il suo muto e addolorato colloquio con il Crocifisso è infatti cosa diversa dall’enfasi con cui, nei quadri dei Girolamini e del Louvre, egli rivolge impetuosamente lo sguardo al cielo portandosi la destra al petto. Da questo punto di vista, la soluzione proposta nel quadro in esame appare più convincente anche rispetto alla versione Colonna, addebitabile in parte agli aiuti, in cui il santo si torce le mani ripetendo alla lettera l’invenzione già utilizzata nel Pallione della peste, dove essa appariva però tanto più necessaria in relazione al tema proposto dal grande dipinto.». Sul piano virtuosistico, «Con un’economia di mezzi davvero impressionante, Reni riesce di fatto a condensare una quantità strabiliante di osservazioni naturalistiche e nello stesso tempo a proiettarle in una dimensione di perfezione ultraterrena: dai lucori degli occhi ai peli della barba sfiorata dalla luce che spiove dall’alto, dalla tessitura dell’umile saio alla superficie polita del teschio, dagli oggetti abbandonati in primo piano alla mirabile apertura di paesaggio, che sembra davvero disfarsi nella luce. Nel dipinto non c’è del resto alcuna pennellata “inutile”; e gli stessi “pentimenti” – nel dorso della mano destra, ad esempio, o nel profilo del teschio – vengono intenzionalmente lasciati a vista, per conferire alla pittura un effetto di maggiore vibrazione. Laddove la luce batte con maggiore insistenza, Guido ricorre poi a una sottile tessitura di pennellate parallele e come ravviate, così da produrre quell’effetto cristallino che gli è proprio e che i copisti cercano invano di imitare. Siamo cioè di fronte a un esito in cui Guido esplicita al grado più alto la propria propensione per un vero “ideale”, mirato ad estrarre dal dato di natura, indagato peraltro con indicibile sottigliezza, il suo valore eterno e metafisico».
Massimo Pulini, cui si deve una ulteriore lettura critica a conferma della piena l'autografia, ha approfondito il ruolo del dipinto in asta quale prototipo, prendendo in esame tutte le altre redazioni «fino ad ora emerse» (Casa d’aste Sammarinese 25 luglio 2014, olio su tela, cm. 170x130, forse la stessa tela presso Lucas, 19 aprile 2021; Hampel 27 giugno 2019 e 2 aprile 2020, olio su tela 192,5 x 145 cm, forse la stessa tela apparsa sul mercato antiquario 28 ottobre 2010; oltre ad alcune riduzioni quali il San Francesco in meditazione presso il Musée du Colombier di Alès, olio su tela, cm. 98 x 73,5, ed una analoga già a Londra sul mercato antiquario), nessuna delle quali riusciva «a raggiungere i livelli qualitativi che merita il catalogo di un genio della pittura» mentre «l’opera in parola ha [...] caratteri di assoluta levatura, dimostrati anche nella sobrietà della tavolozza e nel rigore ascetico che dal tema si trasferisce alle scelte di stile. Una pittura priva di enfasi, ma calibrata sulle declinazioni più delicate e minimali eleva questo esemplare a modello degli altri già noti». Anche il prof. Pulini ritiene il dipinto «inoltrato oltre la metà degli anni Trenta», in ragione della «rarefazione esecutiva tipica dell’ultima stagione dell’artista, quella che precede gli incompiuti dell’estrema produzione. La stenografia pittorica con la quale è condotto il volto del santo racconta quel percorso di spoliazione di ogni enfasi a favore di una essenzialità sapiente, che permette di risolvere anche i più ardui dettagli di un viso scorciato con un’unica e vibrante pennellata. Conferma questa collocazione cronologica anche l’attenuazione della gamma cromatica a poche declinazioni di tono, che tuttavia non impediscono all’artista di esprimere tutti i valori naturali con eleganza formale».
Il consenso alla autografia dell'opera è ampio. Erich Schleir concorda sulla piena autografia reniana («specialmente bello è anche il paesaggio», comunicazione del 28 maggio 2021). Emilio Negro lo ritiene «un bel dipinto eseguito da Guido Reni nell'ultima fase della sua straordinaria carriera» (comunicazione del 29 maggio 2021). David Ekserdjian ne ha avuta «una impressione istintivamente buona», rilevando come per un verso l'opera non mostri i tratti ovvi della copia e per l'altro l'invenzione appaia propria di Reni anche in paragone agli artisti a lui più vicini, come per esempio Cantarini (comunicazione del 17 giugno 2021). Anche Fausto Gozzi supporta la attribuzione a Guido Reni: «I migliori allievi di Reni come Sirani, padre e figlia, Cantarini, Gessi, Torre e Sementi, dipingono in modo diverso da questo, particolarmente Sirani, Cantarini e Torri. Questo san Francesco (183 x 136) ha particolari di altissima qualità: la testa del santo, il Crocifisso, la mano che tiene il teschio e le radici in basso (che ritroviamo uguali anche nella "Maddalena" di Reni della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Roma). La luce scende diagonalmente ed ha un ruolo importante di astrazione chiara dei colori, distribuendo una luce argentea tipica dello stile di Reni. Questa gamma cromatica chiara e rarefatta, produce toni che si avvicinano alla "Pala della peste" (1631) di Reni nella Pinacoteca di Bologna.» Il dr. Gozzi qualifica, inoltre, «il formato (183 x 136)» come «tipico di una "paletta" per una cappella privata».
In base all'esame di una immagine ad alta definizione, Bastian Eclergy, pur rilevando la qualità del dipinto, conserva dubbi sulla autografia, considerandolo un caso complicato da giudicare (comunicazione del 14 marzo 2022).
Contrari alla attribuzione a Reni sono David M. Stone (comunicazione del 4 giugno 2021) e Angelo Mazza (comunicazione del 14 luglio 2021), che reputano la tela della bottega del maestro. Più precisamente, il dr. Mazza connette l'opera con «la tarda bottega reniana [...] senza che si possa confermare l'attribuzione a Reni stesso, neppure in parte, né meglio precisare l'autore». Marco Horak ritiene che in «particolare la resa del volto» indirizzi «verso un’ipotesi attributiva a Giovanni Andrea Sirani (Bologna, 4 settembre 1610 – Bologna, 21 maggio 1670)», unitamente a «“il particolare bagliore che circonda la testa del Santo”, che può essere considerato una sorta di “marchio di fabbrica” della bottega di Guido Reni, dove Giovanni Andrea Sirani, dopo un breve periodo di formazione presso Giacomo Cavedone, venne accolto divenendo l'allievo prediletto del maestro». Alla figlia di Andrea, Elisabetta Sirani (1638-1665) pensa invece Babette Bohn, reputando la tela un potenziale autografo della pittrice, «ispirato dai numerosi dipinti di Guido Reni che rappresentano santi nel paesaggio (Maria Maddalena, Gerolamo)», e databile a poco dopo il 1660. La paletta non risulta, comunque, nella lista delle opere della Sirani pubblicata da Malvasia nella edizione della Felsina pittrice del 1678 (comunicazioni del 14 luglio 2021).
Daniele Benati, Massimo Pulini e Angelo Mazza hanno visto l'opera dal vero. Gli altri studiosi citati hanno espresso un parere su base fotografica.

Ringraziamo Daniele Benati, Babette Bohn, Bastian Eclergy, David Ekserdjian, Fausto Gozzi, Marco Horak, Angelo Mazza, Emilio Negro, Massimo Pulini, Erich Schleier, David M. Stone, per il prezioso supporto nella catalogazione dell'opera.