Lotto 280 | Antonio Vivarini (1418 - 1484) , o Bartolomeo Vivarini (1432 circa-1499) o bottega Vivarini Madonna con Bambino, 1460-1470 ca.

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LA GIOIA A COLORI. VENETO BANCA ATTO II - I CAPOLAVORI Sessione unica
giovedì 29 febbraio 2024 ore 18:00 (UTC +01:00)

Antonio Vivarini (1418 - 1484) , o Bartolomeo Vivarini (1432 circa-1499) o bottega Vivarini Madonna con Bambino, 1460-1470 ca.

Antonio Vivarini (1418 - 1484) , o Bartolomeo Vivarini (1432 circa-1499) o bottega Vivarini
Madonna con Bambino, 1460-1470 ca.
Olio su tavola
52 x 37 cm
Provenienza: Galleria Moretti, Firenze
Certificati: expertise di Egidio Martini, senza data (Bartolomeo Vivarini); expertise di Luciano Bellosi, del 25 maggio 2000 (Bartolomeo Vivarini); expertise di Mauro Lucco (Antonio Vivarini)
Vincoli: Il dipinto è oggetto di una procedura di dichiarazione dell'interesse culturale (avviata considerando quale autore Quirizio da Murano).Stato di conservazione. Supporto: 80% (tavola di pioppo, assottigliata e parchettata)
Stato di conservazione. Superficie: 85% (presenza di impurità e ingiallimento complessivo; verniciatura protettiva non omogenea, relativamente datata; pochi ritocchi; abrasioni e lacune sparse; integrazioni sul bordo sinistro e alla base; piccoli sollevamenti; leggera spulitura; imbrunimento della azzurrite)

La tavola raffigurante la "Madonna con Bambino" in esame si innesta nella complessa vicenda della bottega dei Vivarini, famiglia di pittori originari di Padova che si trasferiscono a Murano nel XIV secolo stabilendo nell'isola celebre per la lavorazione del vetro uno dei fulcri innovatori dell'arte veneziana nella seconda metà del Quattrocento. Il capostipite, Michele, è di professione vetraio; i figli, Antonio (1418 circa - 1476/1484) e Bartolomeo (1430 circa - dopo il 1491), saranno pittori di grande fama, così come il nipote Alvise (1442/1453-1503/1505), figlio di Antonio, con cui si conclude la bottega, di cui è in principio nume tutelare il cognato di Antonio e Bartolomeo, un pittore di origine tedesca, Giovanni di Alemagna (1399 circa - 1450) e in cui fioriscono numerosi talenti, come Quirizio da Murano (attivo a Venezia tra il 1460 ed il 1478), Andrea di Giovanni detto Andrea da Murano (documentato tra il 1462 e il 1502) e Lazzaro Bastiani (1429-1512).
L'immagine trova riscontro, con sottili differenze, sia nella produzione di Antonio, sia in quella di Bartolomeo - di cui d'altra parte gli studi hanno mostrato la ampia collaborazione, e non di rado la confusione - ma al tempo stesso presenta scostamenti qualitativi rispetto al floruit di entrambi, che per lo più hanno portato gli studiosi a ritenerla un'opera di transizione: della vecchiaia del primo ovvero del periodo di formazione del secondo, o ancora nell'avvicendamento tra i due, senza escludere la possibilità di un'altra personalità precocemente connessa alla bottega.
Per primo Egidio Martini (1919-2011) - cui è oggi dedicata l'omonima pinacoteca al Museo di Ca' Rezzonico a Venezia - ha accreditato l'opera al catalogo di Bartolomeo, prendendo le mosse dalla identificazione della modella impiegata per la figura della Madonna «sempre la stessa che vediamo negli altri sui dipinti» e osservando i passaggi di migliore qualità del dipinto, come per esempio «la mano della Madonna posta sul petto del Bambino, trattato anch'esso con una modellazione e un segno nervoso ben definiti», presenti anche nella «"Madonna con Bambino" che si trova alla Galleria Sabauda di Torino, in quella del Museo Correr di Venezia (Cat. G. Mariacher, 1957, p. 236) e ancora in quella del trittico della chiesa di S. Giovanni in Bragora, pure a Venezia: opere tutte della sua maturità, da collocare cronologicamente , come la qui in esame, tra il 1465 e il 1478, cioè in un momento in cui Bartolomeo, superata l'influenza del Mantegna, addolcisce la sua pittura avvicinandosi a quella più umana e pittorica di Giovanni Bellini».
La attribuzione a Bartolomeo è stata autonomamente proposta anche da Luciano Bellosi nel 2000, con una formula prudenziale («mi pare») che gli consente di guardare anche all'altro polo attributivo della tavola in esame, il fratello maggiore Antonio: «Le aureole decorate da finte lettere cufiche messe a oro sono una caratteristica molto particolare della pittura padovana di metà Quattrocento e si ritrovano anche nella bottega del fratello di Bartolomeo, Antonio Vivarini; ad esempio, nel Sant'Ambrogio e nel San Nicola da Bari già nella Chiesa della Salute e ora nel Seminario Patriarcale di Venezia. Anche nel polittico di Bologna, datato 1450, a cui collabora lo stesso Bartolomeo, si ritrovano aureole decorate in modo simile, seppure non identico. Siamo, insomma, nella fase giovanile del pittore veneto, quando egli non è ancora così siglato come nelle sue opere più tipiche». «Tuttavia, il volto, con i grandi bulbi oculari, accentuati dalle palpebre superiori abbassate (quello sinistro più stretto perché più scorciato), con l'accenno al doppio mento, è molto caratteristico di Bartolomeo Vivarini; così come lo sono le mani dalle dita lunghe, sottili e nervose, o la luminosità degli incarnati». Richiamato anch'egli il paragone con la "Madonna" di Washington, Bellosi sottolinea la precocità dell'opera attraverso i riferimenti a Bellini: «Bellissima è la faccina del Bambino, con le guance teneramente rosate, che irradia una freschezza da far venire in mente i rapporti precoci di Bartolomeo Vivarini col Giovanni Bellini più antico. Anche il paesaggio, umido e brumoso, ricorda vagamente quelli più giovanili del Bellini e si concilia con la scelta naturalistica che Bartolomeo Vivarini attua nella sua fase più antica, come, ad esempio, nella stupenda tavola del Museo di Capodimonte a Napoli, del 1465», di contro alla sua opzione normale che sarà il fondo oro.
Mauro Lucco, in un approfondito saggio inedito e non datato, propende invece per l'attribuzione della tavola ad Antonio, pur mantenendo aperta, a sua volta, l'opzione di Bartolomeo. Preliminarmente lo studioso ricorda che «il modo di presentazione, il rapporto affettuoso e fisico tra madre e figlio, nella realtà serena e feriale del paesaggio, indica chiaramente un dipinto di devozione domestica, una di quelle immagini tanto comunemente prodotte a Venezia nel Quattrocento da essere presenti quasi in ogni stanza di casa». Così inquadrata la fortunatissima iconografia della "Madonna con Bambino" ambientata in aperta campagna «il cui motore fu la grande arte di Bellini», Lucco legge nella tavola in esame un gusto assestatosi nella generazione precedente a quella di Bellini, cioè prima del 1460. Esclusa la attribuzione a Quirizio da Murano, che era stata avanzata in sede di dichiarazione dell'interesse culturale, ritiene più «fondata, anche se non totalmente soddisfacente [...] la proposta di considerare il nostro dipinto come opera di Bartolomeo Vivarini, o della sua bottega: il senso generale della composizione è tratto infatti dalla cosiddetta "Madonna Davis" del Metropolitan Museum di New York (inv. 30.95.277), firmata dall'artista e datata 1472». Inoltre il «volto della Madonna [...] corrisponde assai bene, al di là del rovesciamento in controparte, a quello della Vergine orante nel Museo Vetrario di Murano che reca in basso la scritta: "Opvs. Batolomei. Viarini. de.Murano. An. Dom. MCCCCLVIIII [...] Al pari del San Giovanni da Capistrano del Louvre, recante l'identica data, si tratterebbe della prima opera documentata dell'artista da solo, libero dalla tutela del fratello maggiore Antonio. Ma la relazione spaziale tra figura e ambiente è nel nostro dipinto talmente diversa da quella di fine anni Cinquanta, con la Vergine che giganteggia sulla bassa pianura in una monumentalità inimmaginabile per quel tempo, da far pensare necessariamente non al 1459, ma al 1472 della Madonna Davis». Lo studioso considera allora la tenuta estetica della tavola in esame, che gli suggerisce la sensazione quasi di «un abile montaggio a mosaicatura di modelli diversi, incrementata anche dalle "sgrammaticature" proporzionali: il bimbo, ad esempio, pare troppo cresciuto rispetto alla madre, [...], la metà superiore del suo corpo appare troppo piccola rispetto a quella inferiore», per cogliere infine nella «seconda piega che si forma dietro al suo ginocchio destro» «un poco curiosa» la derivazione da «un'altra Madonna di Bartolomeo, già nella collezione di Italico Brass a Venezia, e oggi di ubicazione ignota, e la stessa mano della Vergine che lo sorregge da sotto viene precisamente, anche se in controparte, dallo stesso quadro», che egli data agli anni settanta in base alla coerenza stilistica - in particolare l'invenzione della mano sul petto - con la "Madonna" del Museo Correr (in.v 16), quella del Museo Sanna, Sassari (in. 18903, cat. 109), quella del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.; acc. 1904.19), nonché la variante della National Gallery di Washington: in «tutte queste tavole, la mano sinistra della Vergine posta davanti al petto del bambino è talmente simile a quella del dipinto qui in discussione da non lasciare dubbi sulla sua collocazione cronologica». Anche la figura del Bambino, secondo Lucco, conferma la datazione «tanto sono vivi i ricordi di opere come la Madonna in trono della Galleria Colonna di Roma, firmata e data 1471 [...] e pungenti gli anticipi di altre, come quella al centro del trittico di San Giovanni in Bragora, del 1478. Forse il punto più vicino toccato dal nostro Cristo bambino è col suo omologo nella Madonna Johnson del Museo di Philadelphia (n. 157), che già punta verso le ovalizzazioni dei volti, anni Ottanta, promosse dal nipote Alvise Vivarini». Per Lucco, la conclusione piana di questi paragoni è che «anziché novella invenzione, marcatore di un momento di svolta nella carriera dell'artista, l'opera sembra rivelarsi derivativa, prodotto che si avvicina di più a un artigianato di ottimo livello che alle vette inventive dell'arte». Per lo specialista, tuttavia, proprio questa osservazione deve suggerire uno scatto interpretativo, innanzitutto con la rinuncia all'idea che «la crescita di un artista più giovane all'interno di una bottega comporta un calo uniformemente accelerato, sino all'inevitabile scomparsa, del membro più anziano, anche molti anni prima della sua morte; come se fosse naturale che chi era stato per tanti anni il capo-bottega si ritirasse volentieri dal lavoro [. Al contrario,] nessuno avrebbe mai mollato volontariamente il mestiere da cui traeva il proprio sostentamento, sino al momento in cui ne fosse stato impedito dalle esaurite possibilità del fisico. Oltre che di loro stessi, si trattava infatti di assicurare un futuro anche alle loro vedove, spesso assai giovani».
Ciò suggerisce a Lucco di spostare il focus attributivo da Bartolomeo ad Antonio. «Nella bottega vivariniana, Bartolomeo rappresentava la parte minoritaria della diade dei titolari, e suo nipote Alvise, figlio di Antonio, il membro più giovane; il "capo" era appunto Antonio, a cui Bartolomeo era affiancato già dal polittico della Certosa di Bologna, del 1450». Nella sua interpretazione della bottega vivariniana, Antonio si occupa «delle opere da esportare lungo le coste Adriatiche, ove la mentalità era di solito più conservatrice, e più incline ad accogliere quelle di un "finto Rinascimento" in cui qualche variegatura più aggiornata non muta la sostanza strutturale antica; Bartolomeo invece di quelle per lo stato veneto e le sue città, che avevano gusti un poco più moderni; e Alvise addirittura si sarebbe tirato fuori da questa logica, presentandosi come la punta di diamante dell'attualità, con opere allineate alle maggiori novità del momento.» In questo contesto la «data a cui su faceva solitamente risalire la totale uscita di scena di Antonio era il 1467 del Polittico di Santa Maria Vetere di Andria, oggi nella Pinacoteca Provinciale di Bari, firmato da solo e datato in quell'anno [...] ma all'epoca l'artista aveva poco più di cinquant'anni, e lo cosa appare di fatto poco credibile per uno scomparso non si sa esattamente quando, fra i 9 e i 17 anni dopo. [...] se è rimasto attivo, come sembrerebbe logico, può allora la nostra tavola spettargli, negli anni Settanta del Quattrocento?». Lucco ritiene di sì, anche sulla scorta della testimonianza di Sansovino ("Venetia città nobilissima, et singolare, con aggiunta ... di d. G. Martinioni, Venezia, 1663, p. 185: «Antonio Vivarino del 1470 ... lasciò diverse opere di sua mano; ma consumate da gli anni» nella chiesa veneziana di Sant'Aponal), che viene confermata dalle stesse «indicazioni cronologiche ricavabili dal dipinto in questione [...] Il residuo di esilità tardo gotica che rende la nostra Madonna troppo alta e magra rispetto alla contemporanea robustezza di Bartolomeo, e insieme il senso di cedevolezza della sua carne, aliena alle ferrose ribattiture del fratello, indicano che, all'interno della bottega vivariniana, negli anni in cui lo stile di Bartolomeo è all'apice del suo sviluppo, siamo in presenza di una mano diversa». Pur non potendo «indicare dei precisi confronti con opere documentate di Antonio, dal momento che nulla è oggi noto della sua produzione fino al 1476, se non al 1484; tuttavia, l'unico modo di ricostruire storicamente, e di tentare di capire come potessero essere quelle opere è, tenendo fermo lo spirito generale di un corpus, immaginarle come sviluppo evolutivo di quelle cronologicamente più vicine.» Lo studioso ritiene, così, che Antonio, nella parte estrema della vita, abbia provato ad «adeguarsi fra prove ed errori, al passo dei tempi» , tal ché «i risultato non positivi, potessero a volte superare quelli riusciti, giustificando così l'auto-relegarsi a mercati sempre più provinciali, e l'eventuale atto critico degli "utenti" di dimenticare, o addirittura di abbandonare alla distruzione successiva, quei prodotti». Pur rilevando che «a prima vista non parrebbe che la nostra tavola possa spettare ad Antonio Vivarini, ma, pur in tale presunta diversità, a me par di avvertire» - scrive - «la stessa aria di famiglia» con la "Santa Chiara" dell'altare del 1451 oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. 6559; che peraltro si presta ad un paragone con la tavola di Bartolomeo nello stesso Museo, anch'essa datata al 1451, inv. 6685), o col "San Giacomo" nella tavola del Petit Palais di Avignon (inv. 246), «scomparto probabile del politico di San Giacomo Maggiore a Bologna, documentato del 1462, in cui la figura di San Petronio spetta alla collaborazione di Bartolomeo». «Nella Santa Chiara, la mano che regge il libro è, in controparte, molto simile a quella della nostra Madonna, che sostiene il bambino sedutovi sopra». Lo studioso prende in esame il composito stile della famiglia Vivarini («l'aria di famiglia») come sfondo a cui ancorare i cambiamenti, mantenendo quindi in parallelo l'analisi soprattutto delle produzioni di Antonio e Bartolomeo, per seguire i mutamenti dell'uno in rapporto a quelli dell'altro. In questa prospettiva, non ritiene «così improbabile che, nel corso degli anni, l'ovalizzazione tondeggiante del volto della "Madonna" Davia Bargellini a Bologna, potesse smagrirsi e assottigliarsi fino a raggiungere il modulo più asciutto di quella qui in discussione. Anche i minimi brani di paesaggio qui presenti mi sembrano avere la stessa silenziosa vuotaggine della fantasia ambientale di Antonio. Questa idea dell'ultimo sviluppo di Antonio sarebbe poi richiesta dalla derivazione, sopra accennata, dalla "Madonna Davis" di Bartolomeo, del 1472. Ma vi è ancora in questa nostra tavola un dettaglio che a me pare decisivo ai fini della attribuzione. Non conosco infatti in tutta la pittura veneziana altro esempio di quelle pieghe rigide, geometricamente cannulate, dello zendale trasparente della Vergine, che terminano tutte alla stessa altezza sul suo petto, se non quello del drappo d'onore alle spalle della sua omonima, nella tavola Davia Bargellini; che già nel 1987, contrariamente all'opinione allora corrente, avevo rivendicato al solo Antonio Vivarini, anziché ad Antonio e Bartolomeo insieme. Allo stesso modo, infatti, esse appaiono il frutto di una plissettatura quasi irrigidita con l'amico». La conclusione dello studioso è pertanto in favore della attribuzione della tavola ad Antonio: «Oso dunque immaginare, almeno come ipotesi di lavoro che la futura ricerca dovrebbe incaricarsi di confermare, che ci troviamo di fronte all'opera più tarda di Antonio Vivarini, nei primissimi anni Settanta del Quattrocento; che certo non muta il suo grado nella pittura veneziana, tanto più alto negli anni giovanili, ma potrebbe aiutarci a chiarire, pur nel suo aspetto di gentile retroguardia, il momento più oscuro e deserto della sua vicenda».
Rebecca Müller - autrice del più recente catalogo della pittura vivariana, "Die Vivarini: Bildproduktion in Venedig 1440 Bis 1505", Regensburg, 2023 - su base fotografica, esprime una opinione piuttosto sovrapponibile nella lettura stilistica, collocando l'opera all'inizio dell'età moderna («an early modern painting»), dove «il gesto giocoso del bambino riflette più direttamente i dipinti di Giovanni Bellini» («the playful gesture of the Child is more reflecting paintings by Giovanni Bellini»), quindi la fase formativa dei Vivarini, mentre appaiono assenti i tratti caratteristici dell'ultima produzione della bottega, percorsi da Alvise Vivarini («I cannot see any typical motif of his Madonnas», «his strong modelling and finish of the painting surface»; comunicazione del 26 settembre 2023). Nell'opinione della specialista, l'opera va ricondotta alla attività «di un distante seguace di Bartolomeo Vivarini, sebbene con caratteristiche personali, che ha visto Bellini e Alvise, ma che non ha tratto molto da loro». Si tratta dunque di un artista che respira «l'aria di famiglia» dei Vivarini, secondo la definizione di Lucco, formatosi in una cultura belliniana, più antica di quella di Bartolomeo, e che segue, a distanza e con tratto autonomo, l'evolversi dello stile di famiglia, fino alla confluenza delle esperienze di Bartolomeo maturo e del principio di Alvise, cioè proprio agli anni Settanta del Quattrocento.
Nel settembre 2023 sono state condotte da Gianluca Poldi approfondite analisi scientifiche sulle opere, in particolare: riprese fotografiche in luce diffusa, radente o semiradente; riflettografia in infrarosso in 2 bande spettrali (IRR = range 850-1000 nm ca.; IRR1000 = range spettrale 1060-1080 nm ca); infrarosso in falso colore; spettrometria di riflettanza; microscopia ottica digitale (relazione del 15 ottobre 2023), oltre alla ripresa all'ultravioletto (UV), realizzata dalla casa d'aste.
Le riprese in riflettografia in infrarosso hanno messo in evidenza «un triplice disegno soggiacente: un segno inciso sottile nelle pieghe del manto, come abbastanza tipico fin dal Trecento dove si impiegava l'azzurrite; un disegno di contorno a pennello e inchiostro neo di tipo carbonioso, che segna anche le pieghe e vari dettagli delle figure; infine una accurata lavorazione a tratteggio di tipo chiaroscurale nei volti, più evidente nel Bambino, dove il pittore studia attentamente il volume prima di stendere il colore per le ombre. Il tratteggio è peculiare, non parallelo ma sovente a tratti brevi, quasi a seguire la curvatura del viso. L'underdrawing lineare di contorno mostra, specie sotto alcune parti del viso della Madonna, come nella parte superiore delle labbra, nelle sopracciglia e nell'arco delle palpebre, anche un tratto particolarmente fine, che può riferirsi all'impiego di un modello per il trasferimento 1:1 mediante carta carbone (o simili), secondo una delle prassi tradizionali. Piccole varianti tra disegno preparatorio e pittura si notano nella gamba sinistra del Bambino».
L'opera si conferma così ad un tempo connessa alla bottega vivariana (addirittura attraverso l'impiego di un disegno di trasferimento da altra opera o da prototipo secondo il tipico modello di lavoro delle botteghe venete, impiegato ancora un secolo dopo in quella di Tiziano), e caratterizzato sia da un ricco disegno preparatorio, che garantisce un gradiente di invenzione, rimarcato anche dalla ulteriore libertà che l'artista si prende, rispetto al disegno, nel dipingere la gamba sinistra del Bambino.
Sul piano del colore, le «indagini spettroscopiche mediante spettrometria di riflettanza (vis-RS) e le microscopie digitali hanno permesso di identificare vari pigmenti della materia originale, tra i quali una azzurrite di ottima qualità nelle stesure azzurre del cielo [...] e - assai scura e in parte ridipinta [...] - nel manto quasi nero».
«Un verde di rame (non identificato) è usato, in miscela con pigmento giallo, nella veste del Bambino, così come, variamente mescolato con biacca, nel paesaggio; e grani di verde (probabilmente il medesimo verde rameico) sono pure aggiunti agli incarnati, a base soprattutto di biacca e vermiglione finemente macinato. Nella veste rossa della Vergine si impiega una lacca rossa con stemperate in qualche area rare particelle di azzurrite».
In conclusione, «La struttura delle pennellate, sottili e parallele, è tipico dell’impiego di tempera, fatto che suggerisce una datazione antecedente agli anni Ottanta del XV secolo, in ambito veneto: presumibilmente anni Sessanta-Settanta».
Trova così conferma, anche sul piano dei materiali, la datazione al 1460-1470 rilevata sul piano stilistico dagli specialisti, ed in particolare l'attenta lettura di Mauro Lucco, suffragata anche dal complesso lavoro di preparazione grafica sottostante alla pittura visibile, rispetto alla quale è anche rilevante la qualità della azzurrite impiegata nella tavola, quale segno del rango dell'autore.
Siamo quindi, con molta probabilità di fronte all'ultima opera nota di Antonio Vivarini, esito estremo della sua ricerca ed anche testimonianza della perdurante coesione stilistica e operativa di una delle più fortunate botteghe del Quattrocento veneziano.

Il lotto è opera tutela come di rilevante interesse culturale, con provvedimento in fase di definizione, ai sensi della normativa vigente.

Ringraziamo la dottoressa Rebecca Müller e il dottore Gianluca Poldi per il prezioso supporto nella compilazione dell’opera.