Lotto 3 | Édouard Manet (1832-1883), attribuito a

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giovedì 26 gennaio 2023 ore 18:00 (UTC +01:00)

Édouard Manet (1832-1883), attribuito a

Édouard Manet
Veduta di Saragozza, da Velázquez – del Mazo, 1865
Olio su tela
58,5x155,5 cm
Certificati:
Certificati: scheda di Maria Teresa Benedetti (gennaio 2009; come Manet)

Stato di conservazione:
Condizione supporto: 80% (reintelo)
Condizione superficie: 90%

Numero componenti lotto: 1
In una lettera del 3 settembre 1865 da Madrid, Édouard Manet descrive all’amico pittore Henry Fantin-Latour la propria emozione di fronte ai dipinti di Velázquez conservati al Prado e in particolare per «un quadro enorme, pieno di piccole figure, come quelle che si trovano nel quadro del Louvre intitolato I cavalieri, ma queste figure di donne e di uomini sono superiori, forse, e soprattutto esenti da restauro. Lo sfondo, il paesaggio è di un allievo di Velázquez». Il dipinto che tanto sollecita il padre dell’impressionismo è la Veduta di Saragozza firmata e datata “J.B. del Mazo 1647”, entrata nelle collezioni del Prado dal 1819 e comunemente reputata opera di collaborazione con Velázquez, come intuito da Manet.
L’artista francese tornò molte volte sulle opere di Velázquez e della sua cerchia, copiandole e riutilizzandone le invenzioni spaziali e le soluzioni figurative, le posture dei personaggi e le loro posizioni (J. Wilson-Bareau, Manet and Spain, in Manet / Velázquez. The French Taste for Spanish Painting, a cura di G. Tinterow e G. Lacambre, catalogo della mostra al Metropolitan Museum of Art, New York, 2003, pp. 203-257). Ne fece tesoro, per esempio, con riguardo all’altro dipinto nella nostra citazione, I tredici cavalieri della cerchia del maestro di Siviglia (Louvre, Parigi, 47x78 cm), che egli ripropose con esattezza su una tela di identiche dimensioni oggi al Chrysler Museum of Art, Norfolk, così come prese spunto dal Ritratto di Filippo IV come cacciatore e dal Ritratto dell’infanta Margarita d’Austria per due incisioni e da Las Meninas per una composizione forse smembrata nella cosiddetta Scena di atelier spagnolo (46x38 cm, collezione privata, Giappone). Opere tutte citate nella missiva del 3 settembre, che assume così anche il ruolo di guida alle opere che il maestro aveva copiato o intendeva copiare.
Non era tuttavia nota, fino ad oggi, alcuna opera di Manet direttamente riconducibile alla Veduta di Saragozza di Velázquez e Del Mazo, pur così estesamente citata dal maestro. Si deve a Maria Teresa Benedetti la scoperta della tela in asta, in una prestigiosa collezione privata, dove figurava come lavoro anonimo, pur con un legame di memoria con Manet.
Di grandi dimensioni – 58x155,5 cm – l’opera riprende pressoché in scala 2:1 la tela del Prado (181x331 cm), ma solo per la parte inferiore, in perfetta consonanza con la citazione che ne fa Manet – in accordo con la critica d’arte del tempo – identificando proprio nei gruppi di personaggi la mano del Maestro. Il paesaggio è per un verso obliterato, per l’altro trasformato, con la sostituzione del ponte diroccato con grandi sassi descritti con pennellate vibranti e corrosive. Di particolare riuscita due dei tre personaggi in vesti nere, le fisionomie rapidamente delineate, di cui il primo ritrae forse Velázquez, come fa supporre il confronto con la prima figura del gruppo di tre a sinistra nei Tredici cavalieri, appunto tradizionalmente identificata con il maestro di Siviglia. La impostazione della Veduta di Saragozza – il susseguirsi di primo piano, specchio d’acqua/strada e città sullo sfondo così come la distribuzione dei personaggi in incontri apparentemente casuali – è ripresa da Manet anche in un altro celebre dipinto, la Esposizione universale (1867).
Questo tessuto di ricorrenze iconografiche e formali unite a soluzioni innovative è rafforzato, nella attribuzione alla mano del maestro francese, da un esame ravvicinato del modus pingendi. La rapidità dell’esecuzione, le pennellate sintetiche, la sommarietà con cui sono ripresi alcuni elementi mostra che questa ‘copia non copia’ è stata realizzata da uno sguardo pienamente autonomo che, mentre osserva e studia, riformula l’immagine secondo i propri fini, senza soggezione verso il modello.
L’effetto di insieme è quello tipico di Manet: «Dapprima l’occhio vede soltanto colori applicati con larghezza, presto gli oggetti si disegnano e si mettono al loro posto; in pochi secondi l’insieme appare vigoroso e solido, e si prova una vera emozione del contemplare questa pittura chiara e grave, che rende la natura con brutalità dolce» (in E. Zola, Une Nouvelle manière en peinture. Édouard Manet, Revue di XIX siècle, 1 gennaio 1867). Ciò che più colpisce, tuttavia, è la corrispondenza con le opere certe del pittore impressionista anche nelle parti più autonome del dipinto, come per esempio il comporsi dei marroni in primissimo piano nella nostra tela e nei Tredici cavalieri (1859-1860 circa), ovvero l’uso dell’azzurro sporcato di pennellate grigie e bianche e di segni grafici, qui ripreso nello specchio d’acqua - che richiama puntualmente lo sfondo, la porzione in alto a destra soprattutto, del ritratto di Faure nel ruolo di Amleto (Museum Folkwang, Essen, 1876-1877, 194x131,5 cm), a sua volta citazione di un’altra opera velázqueziana, Il buffone Pablo da Valladolid, anch’essa conservata al Prado (209 x 123 cm., ripresa da Manet anche in una seconda tela, l’Attore tragico, della National Gallery di Washington, 187x108 cm).
La nuova attribuzione viene così ad integrare il catalogo di Manet, con datazione intorno al 1865 – anno del breve e ricco viaggio di Manet in Spagna – incontrando un supporto documentale, concettuale e stilistico particolarmente preciso.

La scheda è largamente debitrice dello studio predisposto sull’opera nel 2009 dalla Professoressa Maria Teresa Benedetti, confermato dalla studiosa alla casa d’aste nell’imminenza della vendita.