90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE
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Lotto 13 SERVITO DI POSATE
Manifattura Clementi
metà sec. XX
in oro 18 kt, composto di ottantotto pezzi con manici decorati da motivi a foglie lanceolate (88)
Composizione: 12 forchette; 12 cucchiai; 12 coltelli; 12 forchette da frutta; 12 coltelli da frutta; 12 cucchiai da frutta; 12 cucchiaini da tè; 1 ramaiolo; 1 paletta da dolce; 1 forchetta ed 1 cucchiaio da portata
An italian 18Kt table service, Clementi, Bologna, mid 20th,composed of eighty-eight pieces (88)
170.000/220.000 - $ 221.000/286.000 - £ 136.000/176.000
L'argenteria Clementi nacque a Casalecchio nel 1912 dalla collaborazione tra l'argentiere Michelangelo Clementi e l'azienda tedesca Wilkens&Son, leader nella produzione di oggetti in argento. Dal 1982 l'azienda fu rilevata dalla famiglia Buccellati che ancora oggi ne è proprietaria.
Per millenni l’uomo ha usato solo le mani per mangiare attingendo da ciotole di terracotta zuppe e bevande. Con la nascita dei primi centri urbani e l’evolversi della civiltà agricola nacque anche la necessità di un galateo della tavola.
IL CUCCHIAIO
Il nome cucchiaio deriva dal latino cochlea che significa chiocciola poiché il guscio di questi animali fu il primo strumento utilizzato dall’uomo per portare liquidi alla bocca.
I cucchiai furono utilizzati sin dal paleolitico sotto forma di conchiglie o pezzi di legno con la funzione di portare alla bocca piccole quantità di liquidi. A partire dalla preistoria e per migliaia di anni successivi fu fabbricato in legni profumati quali il bosso o il ginepro. Furono gli egiziani a forgiare i primi cucchiai in bronzo.
I Romani utilizzarono due tipi di cucchiai uno con pala ovale e manico dritto o curvo chiamato ligula un altro chiamato cochlear, con pala rotonda e manico dritto e appuntito.
Nel Medioevo i cucchiai usati nelle case dei signori erano fatti con materiali preziosi come cristallo, argento e onice per rispondere alle nuove necessità di lusso e solo dal XIV secolo comparvero cucchiai realizzati in ottone o altri metalli di uso più popolare.
Con la moda delle grandi gorgiere, dal XVI secolo, anche la forma del cucchiaio si modificò . Nacquero cucchiai con specifiche fruizioni, cucchiai da intingolo, da caffè, da tè e da zucchero e invece di avere forma di una coppa da tenere con le due mani tornò l’uso di cucchiai con manici da impugnare in una sola mano.
Dal XIX secolo con l’affermarsi del galateo il cucchiaio assunse la forma odierna.
IL COLTELLO
La sua nascita è legata all’uso di questo utensile nella caccia sin dalla preistoria. I primi erano selci taglienti e successivamente furono utilizzate anche ossa, legni e pietre più lavorate. Con la scoperta dei metalli e l’inizio dell’uso del bronzo il coltello assunse la forma con manico e lama le cui dimensioni poteva variare a seconda dei diversi usi.
In età greca e romana i coltelli potevano avere manici in metallo o in osso finemente decorati ed erano utilizzati sia per tagliare che per portare il cibo alla bocca.
Nel Medioevo il coltello assunse un carattere molto personale, strumento di combattimento e di caccia, poteva essere portato appeso alla cintura e ognuno a tavola utilizzava il proprio.
Nel corso del Rinascimento i più raffinati fabbricanti di coltelli furono italiani, si pensi ai coltelli con eleganti manici in argento cesellato conservati al Museo Poldi Pezzoli di Milano.
L’uso di questo utensile cambiò in questo periodo con l’avvento della forchetta. Le lame dei coltelli infatti non ebbero più la funzione di portare il cibo alla bocca e le loro punte cominciarono ad arrotondarsi.
LA FORCHETTA
L’uomo primitivo utilizzò la forchetta non come utensile per mangiare ma come bastone biforcuto.
In epoca romana venne utilizzata, da uno specifico addetto, come strumento per tagliare le carni e servirle ai commensali.
L’uso della forchetta personal -
Lotto 14 Collana, Cartier, in platino, oro bianco e diamanti
La parte anteriore composta da due spille a clip amovibili ciascuna modellata come un'ala con estremità snodabile interamente decorata in pavé di diamanti rotondi taglio brillante e singolo; la venatura centrale formata da una linea curva in baguette poste in gradazione. Ciascuna ala si diparte da una composizione floreale stilizzata composta da quattro elementi a volute in brillanti centrate da diamanti. La parte posteriore realizzata a due file di diamanti taglio brillante e baguette posti in lieve gradazione. Fermatura in oro bianco. Clips databili 1953 con punzoni Cartier Paris 011 815, lungh. cm 10, largh. cm 3. Collana databile 1938, punzoni Cartier Paris DEPOSE' 01067
Corredata di Certificato di autenticità Cartier n. GE2011-31 datato 14/3/2011
The front composed of a pair of detachable clip-brooches designed as inverted articulated wings, each pavé-set throughout with brilliant-and-single-cut diamonds, the graduated central vein channel-set with diamond baguettes, the formal floral cluster at the centre composed of four diamond-set loops, each claw- set at the centre with a larger brilliant-cut diamond, the back of the necklace designed as a graduated double row of baguette-and brilliant-cut diamonds, white gold “cliquet” clasp; the two brooches fitted with a white gold double prong sprung clip with security catch. Clips 1953, Cartier Paris 011 815, length cm 10, width cm 3. Necklace 1938, Cartier Paris DEPOSE' 01067
Accompanied by Certificate of Authenticity no. GE2011-31 dated 14 March 2011 from Cartier Geneva
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Lotto 15 Pellegrino di Mariano
(Siena, documentato dal 1449–1492)
MADONNA COL BAMBINO E I SANTI CATERINA DA SIENA, BERNARDINO DA SIENA, GIROLAMO, DOROTEA E DUE ANGELI
post 1461
tempera e oro su tavola centinata con cornice originale, cm 61x41,8 (cornice inclusa), cm 52,5x32,9 (superficie dipinta)
Corredato da attestato di libera circolazione
after 1461
tempera and gold on panel, shaped above, in an original engaged frame, 61x41,8 cm (including frame), 52,5x32,9 cm (painted surface)
An export licence is available for this lot
60.000/80.000 - $ 78.000/104000 - £ 48.000/64.000
Provenienza:
mercato antiquario, Roma;
collezione privata
Questo dipinto è un tipico esempio di immagine devozionale dovuta a Pellegrino di Mariano, maestro senese noto soprattutto per la sua attività di miniatore, che durante la sua lunga carriera, fu attivo per committenti prestigiosi: da papa Pio II Piccolomini a istituzioni di rilievo come l’Opera del Duomo e lo Spedale di Santa Maria della Scala di Siena.
A giudicare dal cospicuo numero di opere giunte fino a noi, dove l’immagine della Vergine col Bambino è spesso accompagnata da santi e angeli, possiamo supporre che i dipinti su tavola di Pellegrino siano stati particolarmente apprezzati nella Siena del Quattrocento. Formatosi probabilmente con Giovanni di Paolo (1398-1482), il pittore entrò quindi nella cerchia di Sano di Pietro (1405-1481), il maestro più popolare in città intorno alla metà del secolo. Seguendo le pratiche di bottega ed emulando le fortunatissime composizioni di quest’ultimo, Pellegrino seppe quindi distinguersi come un vero e proprio specialista nel genere della pittura devozionale. Sano di Pietro aveva codificato nella pittura senese una nuova tipologia di immagine devozionale mariana, in cui la Madonna e il Bambino sono raffigurati a mezzo busto o a tre quarti, affiancati da figure di santi e angeli disposti simmetricamente, che si stagliano contro un fondo oro splendente e punzonato. Di solito l’iconografia di questi dipinti era personalizzata, attraverso figure di santi scelte dai committenti. Custodite in dimore private o nelle celle dei membri di ordini religiosi, simili tavole servivano alla devozione privata di chi le possedeva.
Pellegrino di Mariano aderì alla formula compositiva inventata da Sano di Pietro, ma cercò pure di distinguere i suoi dipinti con uno stile personale. Spesso prese a modello immagini tradizionali (in particolare opere di Simone Martini, Lippo Memmi, Andrea di Bartolo e Jacopo della Quercia), ma per andare incontro alle richieste del mercato seppe dare vita a proprie soluzioni, variate in numerosi esemplari, riadoperando gli stessi cartoni. Le sue immagini sono permeate da un senso di pietà semplice e schietto, e caratterizzate da un linguaggio diretto e da un vivo cromatismo.
La Vergine è raffigurata a mezzo busto e in primo piano rispetto alle figure circostanti, con il consueto manto blu scuro che lascia intravedere il velo e con la veste di colore rosso. Si volge verso la sinistra tenendo Gesù Bambino col braccio destro, con uno sguardo malinconico come se contemplasse l’inevitabile e tragico destino del Figlio divino. La sua aureola porta incisa la scritta “AVE MARIA GRATIA PLEN[A]”, ora in parte abrasa. Queste parole appaiono frequentemente nell’aureola di Maria nella pittura senese di questo periodo e si riferiscono al passo del Vangelo di San Luca sul quale si basa la tradizionale preghiera cattolica: il saluto con il quale l’Arcangelo Gabriele annunciò la nascita di Cristo alla Vergine (“Ti saluto, o favorita dalla grazia, [il Signore è con te]”, Luca 1,27). Un raro particolare iconografico si distingue nella Colomba dello Spirito Santo, che si libra sopra la figura della Vergine dopo la discesa dal Paradiso, simboleggiato dai soprastanti raggi dorati. La colomba si riferisce anche all’Annunciazione, e fornisce allo spettatore devoto la prov -
Lotto 16 Scultore senese
CROCIFISSO (CRISTO DEPOSTO CON BRACCIA MOBILI)
1340/1350 circa
scultura in legno da frutto policromato (pero?), cm 158x105x21,5 (alt. cm 123 con le braccia ribassate)
polychrome fruit-tree wood sculpture (pear?), cm 158x105x21,5 (h. 123 cm with lowered arms)
15.000/20.000 - $ 19.500/26.000 - £ 12.000/16.000
Provenienza:
collezione privata
La sagoma snella del Crocifisso è scolpita a tutto tondo in un unico massello di legno da frutto, forse pero, ma la consueta iconografia del soggetto si avvale di braccia reclinabili volte a garantirne la duplice funzione di Cristo deposto. Senz’altro riconducibile al contesto figurativo di ambito toscano di cui tratteremo oltre nel dettaglio, quest’opera costituisce un significativo ritrovamento critico per aggiornare il corpus superstite dei simulacri centroitaliani di età gotica impiegati nella liturgia collettiva del Venerdì Santo. Durante tale celebrazione non si sarebbe assistito a una semplice riproposizione scenica del Dramma, bensì a una ritualità di grande coinvolgimento emozionale garantita dalla recitazione delle cosiddette Lamentazioni mariane. L’esito, infatti, era quello di sacre rappresentazioni teatrali basate su dialoghi derivati dall’uso popolare della Lauda e dal Planctus di tradizione latina, assecondando peraltro la tendenza del rinnovamento spirituale che già pervase profondamente il XIII secolo, in particolare grazie alla crescente affermazione di ordini mendicanti come Francescani e Domenicani, nonché di pari passo col dilagare delle numerose confraternite. Una volta sfilati i chiavelli delle mani e dei piedi, l’immagine scolpita del Cristo doveva essere rimossa simbolicamente dalla croce - ormai dispersa ma si può presumere che corrispondesse al tronco dell’Arbor Vitae -, provvedendo dunque ad adagiare gli arti superiori lungo i fianchi per simularne la tumulazione nel sepolcro. Il meccanismo primitivo era garantito dagli alloggiamenti ricavati nelle spalle e dall’innesto-cardine delle braccia fissato da semplici perni lignei. Il ripetersi secolare di questa pratica compromise però il movimento stesso fino a danneggiare irrimediabilmente le zone più esposte, tra cui le mani e parte degli avambracci, sostituiti da un restauro ottocentesco con rifacimenti più grossolani. È invece probabile che l’eliminazione delle orecchie e della capigliatura - forse dapprima folta al pari della barba quasi rossiccia e intagliata con ciocche che dovevano sfiorare le spalle -, la riscalpellatura della calotta, così come la variazione della pendenza del capo, siano imputabili all’accomodamento per una parrucca di capelli veri, espediente realistico molto frequente dopo i nuovi precetti liturgici della Controriforma. Il recente restauro conservativo, condotto nel 2008 a Oriago di Mira presso il laboratorio di restauro di Giovanna Menegazzi e Roberto Bergamaschi, ha pertanto eliminato le incrostazioni delle varie ridipinture che occultavano la pregevole sensibilità plastica dell’anatomia, valorizzando la tonalità avorio dell’incarnato e confermando che la versatilità tipologico-funzionale di cui l’opera si fa interprete era stata prevista fino dal principio. Alla luce degli aspetti descritti è stato altresì ritenuto opportuno procedere al delicato ripristino filologico dell’antico meccanismo mobile. Ciò ha consentito il naturale svasamento a “V” delle braccia verso l’alto, mentre il perizoma - pervenuto privo della colorazione iniziale salvo minimi frammenti di blu presenti sulle terga - è stato uniformato da una sottile imprimitura di gesso reversibile.
Fondato sulla testimonianza evangelica dell’apostolo prediletto Giovanni (Gv. 19, 38-42), il soggetto della Depositio Christi divenne fin dalla sua comparsa nell’arte bizantina fra IX e X secolo uno dei temi più drammatici e riprodotti dell’iconografia cristiana. Eppure bisogna considerare che nei vangeli non emergono -
Lotto 17 Maestro influenzato da Tino di Camaino (Italia centro-meridionale), quarto decennio del Trecento
SAN MICHELE ARCANGELO ASSISO IN TRONO
scultura in legno policromato, cm120x43x39
Corredato da attestato di temporanea importazione
polychrome wood sculpture, cm120x43x39
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€ 50.000/70.000 - $ 65.000/91.000 - £ 40.000/56.000
Provenienza:
collezione privata
La statua raffigura san Michele arcangelo seduto in trono. Si evince il soggetto dall’aspetto giovane del personaggio e dal diadema che ha in fronte, oltre che dal globo osteso con la mano sinistra. Mancano invece le ali, la cui presenza è solitamente testimoniata da fori di attacco, non ravvisabili a tergo. Non è da escludere che essi siano celati da una ripresa a stucco sul retro, sotto un’ampia zona tangente la parte scavata. Solo il restauro potrà fornirci ulteriori dati insieme ad una precisa indagine sulle stesure cromatiche.
L’angelo indossa un manto rosso su una veste che ha perduto in larga parte il colore e che in origine poteva presentarsi bianca soppannata d’azzurro. Ai piedi dell’Arcangelo si stende il corpo del drago, rigonfio e pinnato, che serra frontalmente, con la testa allungata da un lato e la svettante coda dall’altro, la figura assisa, creando un contrappunto alla splendida soluzione del panneggio.
In ottemperanza alla tradizione figurativa, San Michele poteva stringere nell’altra mano la spada, andata perduta. Sembra da escludere l’ipotesi che afferrasse una lancia, dal momento che, per le sue dimensioni, l’arma avrebbe dovuto essere posta in diagonale, posizione non consentita dalla mano chiusa per stringere un oggetto dallo sviluppo in verticale. Di questa iconografia possiamo trovare un precedente significativo, in pittura, nel dossale di Vico l’Abate (Fig.1) attribuito a Coppo di Marcovaldo (settimo decennio del Duecento), ora nel Museo di Arte Sacra di San Casciano, in cui san Michele è raffigurato in trono, ma senza il drago ai piedi; e inoltre nel trittico di Angelo Puccinelli ora nella Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui il corpo del drago, sconfitto, appare addirittura smembrato; simile raffigurazione nella tavola di Giambono nella collezione Berenson di Firenze. Le altre rappresentazioni in scultura raffigurano per lo più l’Arcangelo stante e non in trono: si richiamano gli esempi di Badia a Passignano, della fine secolo XII; dell’Antelami a Parma (Museo Diocesano); di San Michele in Cioncio (Pistoia), della metà del secolo XIII; dell’ ambito dell’Orcagna, già Bardini e poi Fondazione Cini, Monselice.
Raggiungendo un risultato raro quanto originale, è probabile che lo scultore abbia attuato una sintesi tra la versione di Michele nel momento che uccide il drago (drago che per questo si mostra ancora dinamico nell’incurvarsi risalente del collo ) e quella dello stesso arcangelo in trono a dominare la fiera sconfitta, divenuta ormai soltanto attributo.
Immagini dell’Arcangelo Michele avevano avuto una cospicua diffusione tra Duecento e Trecento, anche per il suo culto associato alla Vergine. In qualità di psicopompo, infatti, appariva legato alla raffigurazione della Dormitio Virginis con il ruolo di ricondurre al corpo l’animula raccolta dal Cristo. Inoltre, avendo combattuto Lucifero, fungeva da prefigurazione della Vergine, che, quale moderna Eva, avrebbe schiacciato la testa del serpente. Il legame tra l’Arcangelo Michele e la Vergine è sancito anche nelle raffigurazioni dell’Apocalisse e del Giudizio Universale. Per tutti questi motivi l’immagine di Michele Arcangelo inserita, insieme a quella della Vergine e del Crocifisso, quale arredo del pontile della Porziuncola nel dipinto dell’Accertamento delle stimmate nel ciclo -
Lotto 18 Lorenzo Ghiberti e bottega
(Firenze 1371-1455)
MADONNA COL BAMBINO PROTETTO DAL MANTO, 1420 ca.
da un modello riferito anche a Filippo Brunelleschi, Nanni di Banco, Michelozzo
altorilievo scontornato in stucco dipinto e dorato; cm 71x56x20 montato su base in materiale acrilico
Corredato da attestato di libera circolazione
Giancarlo Gentilini, Firenze, 21 febbraio 2014
from a model also attributed to Filippo Brunelleschi, Nanni di Banco, Michelozzo
deep-etched high relief with painted and gilded stucco work, 71x56x20 cm mounted on acrylic stand
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€ 60.000/80.000 $ 78.000/104.000 - £ 48.000/64.000
Provenienza:
collezione privata
Questo seducente, affabile rilievo costituisce una testimonianza pregevole - in particolare per il nitore plastico e la struggente intensità espressiva dei volti che conservano la delicata policromia originaria - di una delle più celebri composizioni mariane del primo Rinascimento fiorentino, tradizionalmente riferita a Lorenzo Ghiberti, nota attraverso varie redazioni in terracotta e stucco dipinto, tra le quali ho già avuto modo di segnalare l’opera in esame (presentata nel marzo 1984 dalla casa d’aste L’Arcadia di Roma) in appendice ad una corposa scheda dedicata all’esemplare conservato nella Collezione Chigi Saracini di Siena (Gentilini 1989, p. 47).
Ben attestata sin dall’Ottocento, la fortuna critica e collezionistica di questa tipologia si è riaccesa negli ultimi anni con rinnovato interesse a seguito del rinvenimento, nel 2006 presso il Palazzo Vescovile di Fiesole, di una eccezionale versione direttamente modellata in terracotta ed impreziosita da una policromia raffinatissima, ritenuta con efficaci motivazioni, formali e tecniche, il capostipite di tale florida famiglia (Speranza e Moradei 2008; in ultimo Galli 2013) (Fig.1). La Madonna di Fiesole (attualmente in deposito presso il locale Museo Bandini), riproposta con enfasi in numerose occasioni espositive, tra le quali la nutrita rassegna Il cotto dell’Impruneta. Maestri del Rinascimento (Impruneta 2009), la mostra Madonne rinascimentali al Quirinale (Roma 2011) - dove compariva accanto ad una nobile replica in stucco donata in quell’anno alla Cattedrale di Firenze dal collezionista Massimo Ersoch (Madonna Ersoch 2011) (Fig. 2) - e la recente, prestigiosa esposizione La Primavera del Rinascimento (Firenze, Palazzo Strozzi - Parigi, Musée du Louvre, 2013-2014), ha infatti contribuito non poco a promuovere una più puntuale attenzione a questo importante modello, anche in ragione di un riferimento attributivo a Filippo Brunelleschi nei primi anni del Quattrocento, sostenuto con autorevolezza dal compianto Luciano Bellosi (1998, 2002, 2009, 2011) e rilanciato da Laura Speranza (2008, 2009), mentre altri - come vedremo - ne hanno confermata con nuovi argomenti la paternità ghibertiana (Ortenzi 2009; Gentilini 2009; Mozzati 2013), ma anche avanzato un riferimento a Nanni di Banco (Galli 2013).
La Vergine dai soavi lineamenti adolescenziali, coperta da un ampio mantello che si raccoglie sul capo e ricade intorno al volto con eleganti, misurate increspature, è rappresentata a mezza figura in atto di sostenere in grembo, stringendolo al petto, un tenero Gesù Bambino sgambettante dai folti capelli ricciuti, il quale, pervaso da un sottile turbamento nel presagio della sua grave e fatale missione, cerca conforto e protezione afferrandone saldamente la veste e rifugiandosi sotto il manto della madre, pronta a rasserenarlo col volto reclinato fino a sfiorarne la fronte. Come spesso accade nelle immagini mariane rinascimentali, la dolce, gioiosa intimità domestica della scena sembra dunque acquistare un significato ulteriore, più drammatico e commovente, adombrando, -
Lotto 19 Jacopo Vignali
(Pratovecchio, Arezzo 1592 – Firenze 1664)
IL RITROVAMENTO DI MOSE'
olio su tela, cm 184x210 con cornice coeva, dorata e incisa a motivo di piccole foglie e perlinatura
firmato e datato sulla cesta: “JAC.VIGNA/ LI.F. MDCXXV”
Corredato da attestato di libera circolazione
oil on canvas, cm 184x210 with coeval gilded frame, engraved with a motif of small leaves and a bead moulding
signed “JAC. VIGNA/LI. F. MDCXXV on the basket
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€ 120.000/150.000 - $ 156.000/195.000 - £ 96.000/120.000
Provenienza:
eseguito nel 1625 su commissione del Balì Pucci (probabilmente Giulio di Niccolò Pucci), Villa Pucci di Granaiolo (Castelfiorentino);
acquistato negli anni '60 dagli attuali proprietari (collezione privata, Montecatini) direttamente dalla nobile famiglia;
asta Galleria Giorgi, Firenze 6-8 febbraio 1971, lotto 149;
collezione privata, Montecatini
Bibliografia:
S.B. Bartolozzi, Vita di Jacopo Vignali pittor fiorentino, Firenze 1753, p. XII; Prima asta d’inverno, catalogo, Firenze, Galleria Giorgi, 6-8 febbraio 1971, n. 149; F. Mastropierro, Jacopo Vignali. Pittore nella Firenze del Seicento, Milano 1973, pp. 11, 29, 69, fig. 13; P. Bigongiari, Il caso e il caos I. Il Seicento fiorentino tra Galileo e il “recitar cantando”, Milano 1974, p. 43; ed. 1982, p. 81; G. Cantelli, Mitologia sacra e profana e le sue eroine nella pittura fiorentina della prima metà del Seicento (I), in “Paradigma”, 3, 1980, p. 164, nota 49; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 142; G. Pagliarulo, Jacopo Vignali, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra, Firenze 1986-1987, 1986, Biografie, p. 184; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Milano 2009, p. 708; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del '600 e '700. Biografie e opere, Firenze 2009, I, p. 271; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, I, p. 193 ; G. Pagliarulo, Per Jacopo Vignali disegnatore: un percorso tra gli studi di figura, in "Paragone", 64, 2013, pp. 11-46, cit. p.16.
L’importante opera che qui presentiamo raffigurante Il Ritrovamento di Mosè è da ritenersi fra i capolavori del pittore fiorentino Jacopo Vignali nato a Pratovecchio in Casentino nel 1592 e morto a Firenze nel 1664.
Firmato e datato 1625, il dipinto venne eseguito dal pittore su commissione di un membro della famiglia Pucci, come documentato dalle fonti, e destinato alla Villa Pucci di Granaiolo dove rimase fino alla metà degli anni sessanta del ‘900 per poi passare nell’attuale collezione privata a Montecatini e ora proposto al pubblico in occasione della celebrazione dei novant’anni della Casa d’Aste Pandolfini.
Jacopo Vignali ebbe un ruolo importante nella Firenze del Seicento tuttavia il Baldinucci non dedicava una particolare ‘notizia’ al pittore fiorentino, ricordandolo solo brevemente come allievo di Matteo Rosselli e maestro di Carlo Dolci.
Le notizie sulla vita del pittore furono raccolte per la prima volta dall’erudito Sebastiano Benedetto Bartolozzi, grazie alla documentazione costituita da lettere e dal registro di bottega che erano state messe a sua disposizione dagli eredi del pittore. Il testo di Bartolozzi (1753) risulta di fondamentale importanza per la ricostruzione del percorso artistico del pittore in particolare per le preziose indicazioni circa la committenza delle opere.
Il pittore si trasferì fin da giovane età a Firenze, presumibilmente nei primi anni del ‘600, dove entrò -
Lotto 20 Giovan Battista Spinelli
(Bergamo o Chieti, documentato dal 1640 al 1655)
DAVID CON LA TESTA DI GOLIA
olio su tela, cm 96x121
Corredato da attestato di libera circolazione
oil on canvas, 96x121 cm
An export licence is available for this lot
€ 100.000/150.000 - $ 130.000/195.000 - £ 80.000/120.000
Provenienza:
asta Vangelisti, Lucca, 1971, lotto 59 (come opera di Francesco Furini);
collezione privata, Firenze
Esposizioni:
Civiltà del Seicento a Napoli. Napoli, Museo di Capodimonte, 24 ottobre 1984-14 aprile 1985, n. 2.247
Bibliografia:
Asta degli arredi della Villa Poggio al Debbio a S. Michele di Moriano, Lucca degli eredi Castoldi e di altre private proprietà, Galleria Vangelisti Lucca, maggio-giugno 1971, lotto 59 p. 12 ; N. Spinosa, Aggiunte a Giovan Battista Spinelli, in “Paragone” XXXV, 1984, 411, pp. 22 e 36, nota 1; fig. 11; N. Spinosa, La pittura napoletana del 600, Milano 1984, fig. 788; D.M. Pagano, in Civiltà del Seicento a Napoli. Catalogo della mostra, Napoli 1984, pp. 177 e 468-69; L. Ravelli, Considerazioni su un artista di origine bergamasca, in “Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti” 45, 1985-86, II, p. 836; N. Spinosa e D.M. Pagano, Giovan Battista Spinelli, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento, IV, Bergamo 1987, p. 25, n. 9; p. 36, fig. 4.
Referenze fotografiche: Fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz, Mal. Bar. busta Spadino-Sprecaro, inv. 442895
Venduto in asta nel 1971 come opera di Francesco Furini, il dipinto fu restituito oralmente a Giovan Battista Spinelli grazie a un’intuizione di Carlo Del Bravo, che lo riconobbe opera dell’artista napoletano sulla scia degli studi di Roberto Longhi che poco prima, nel 1969, avevano inaugurato la riscoperta del pittore portando inoltre all’acquisto, da parte dello Stato italiano, delle bellissime storie di David tuttora agli Uffizi. Solo nel 1984, però, e su segnalazione di Mina Gregori, il dipinto fu pubblicato per la prima volta da Nicola Spinosa nell’ambito di uno studio che accresceva in maniera significativa il catalogo del pittore e la conoscenza dei suoi dati biografici. In quell’occasione, lo studioso rilevava …”l’ambiguità… che si carica di umori morbosi e di misteriose valenze nel giovane “capellone” con l’elegante copricapo piumato ad ombreggiargli il volto da efebo scelto da Spinelli per il ruolo di David…” e insieme la cruda realtà, ancora di matrice caravaggesca, “del capo mozzato di Golia in primissimo piano con tratti somatici di uno spietato realismo”.
In quello stesso anno il dipinto fu presentato a un pubblico più ampio in occasione della storica rassegna sul Seicento napoletano fortemente voluta da Raffaello Causa e realizzata dopo la sua scomparsa dalla Soprintendenza napoletana.
Oltre che con un gruppo di fogli in parte provenienti dallo storico nucleo delle collezioni medicee conservato agli Uffizi, Spinelli era presente in quell’occasione con ben dieci tele in una sala a lui dedicata: una scelta che dava conto della sua personalità appena risarcita e della sua situazione anomala nell’ambito della scuola napoletana, più che del peso che in quella scuola l’artista di origini bergamasche aveva effettivamente rivestito.
Cruciale si era rivelata in effetti la scoperta della patria d’origine del pittore e della sua documentata presenza a Chieti tra quinto e sesto decennio del secolo, un dato che veniva a spiegare l’esistenza delle numerose opere di sua mano segnalate da Ferdinando Bologna in chiese e collezioni d’Abruzzo, e consentiva di disporle plausibilmente in un arco di tempo più lungo di quello suggerito dalla “vita” di Bernardo De -
Lotto 21 Gaetano Cusati
(attivo a Napoli dal 1686 circa – 1720)
VASI DI FIORI, FRUTTA E FIGURE FEMMINILI SU SFONDO DI GIARDINO
VASO DI FIORI, FRUTTA, UN CANE E FIGURE FEMMINILI SU SFONDO DI GIARDINO CON FONTANA E SCULTURE
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 179,5x205 ciascuno senza cornici
(2)
Corredato da attestato di libera circolazione
oil on canvas, unframed, each 179,5x205 cm
a pair (2)
An export licence is available for this lot
€ 70.000/90.000 - $ 91.000/117.000 - £ 56.000/72.000
Provenienza:
Palazzo Gaetani dell'Aquila d'Aragona, Piedimonte di Alife (Piedimonte Matese);
discendenti della nobile famiglia, Roma
L’inedita coppia di composizioni floreali qui presentate, ininterrottamente riferite a Gaetano Cusati nell’illustre raccolta di provenienza, costituisce un’aggiunta importante al catalogo, tuttora esiguo, dell’artista napoletano e, nel contempo, una perfetta dimostrazione del suo riconosciuto e inusuale talento come pittore di natura morta e di figura.
Così infatti lo ricorda Bernardo De Dominici nel capitolo delle Vite de’ Pittori Napoletani (1742) dedicato agli specialisti di natura morta del tardo Sei e del primo Settecento, e in particolare agli allievi di Giovan Battista Ruoppolo: “Gaetano Cusati fu anche pittor di figure, indi invaghitosi dell’opere di Giovan Battista (Ruoppolo) volle essere suo scolaro; ma vedendo poi la maniera di Abram Brughel e lo strepitoso modo de’ suoi componimenti, fece un misto di tutte e due le maniere e riuscì ancor egli bizzarro nel comporre assai cose insieme in gran quadri; e poiché egli sapea far le figure, l’accordava con fontane, con statue, con vasi, con putti, ed altre cose assai pittoresche, dipingendo assai bene le cacciaggioni, ove introduceva de’ bellissimi cani, ed anche li dipingeva ne’ quadri di frutti, come solea fare il Brughel”.
Parole che sembrano descrivere come meglio non si potrebbe i dipinti qui presentati che, come si dirà, il biografo certamente conosceva: di imponenti dimensioni, tali da confermarne una committenza specifica, le nostre tele riuniscono appunto in un insieme armonioso tutti i motivi qui ricordati consentendoci di apprezzare l’abilità dell’artista nel descrivere le corolle variopinte e la frutta estiva, i vasi d’argento sbalzato e le sculture in pietra, e nel disporli all’aperto in una sorta di giardino incantato ove figure femminili di chiara ascendenza giordanesca compongono scene allegoriche e insieme in qualche modo naturalistiche.
In assenza di documenti che certifichino la nascita di Gaetano Cusati e le circostanze della sua attività, le parole del biografo sembrano indicare una formazione all’inizio degli anni Settanta, prima che l’arrivo a Napoli di Abraham Brueghel nel 1675 mutasse il corso della natura morta napoletana rivolta, fino a quel momento, a intenzioni essenzialmente naturalistiche.
Col suo modo “fracassoso” e il suo “concepire i quadri con idea grande” (De Dominici) Brueghel proponeva infatti formule del tutto inedite non solo al giovane Cusati ma anche al più anziano e famoso Giuseppe (“Eques”) Recco e ad altri ancora: soluzioni che il pittore fiammingo aveva sperimentato con successo a Roma a partire dagli anni Sessanta quando, portate all’aperto le sue rutilanti mostre di frutta e fiori, aveva chiamato artisti di primo piano come Guglielmo Courtois e il giovane Carlo Maratti per accompagnarle con le loro raffinate figure femminili, stabilendo così un modello che a Napoli sarebbe stato ripreso con successo da numerosi artisti tra Sei e Settecento, da Nicola Malinconico a Gaspare Lopez, al più raro Giorgio Garri.
Pittore di figura a pieno titolo, come indicano le tele eseguite nel 1715 per il soffitto della chiesa del Rosario a -
Lotto 22 Luigi Ademollo
(Milano 1764-Firenze 1849)
TOLETTA DI VENERE
olio su tela, cm 96x122 cornice coeva intagliata e dorata applicata su telaio di epoca posteriore
Corredato da attestato di libera circolazione
oil on canvas, cm 96x122 coeval engraved and gilded frame applied on a later date framework
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70.000/90.000 - $ 91.000/117.000 - £ 56.000/72.000
Provenienza:
Palazzo Sergardi, Siena;
mercato antiquario, Firenze (anni ’80);
collezione privata, Firenze
Bibliografia:
C. Danti, Per l’arte neoclassica e romantica a Siena, in “Bullettino senese di storia patria” 88, 1981, pp. 115-168 (specificamente pp. 124-34; per il dipinto p. 129 nota 52, dove sono citate come esistenti nella sala di Bacco e Arianna due sovrapporte raffiguranti rispettivamente Venere e Diana); C. Sisi, I committenti del Neoclassicismo, in La cultura artistica a Siena nell’Ottocento, a cura di Carlo Sisi e Ettore Spalletti, Siena 1994, p. 99, fig. 55; C. Sisi, Manifestazioni del gusto. In L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il Neoclassicismo 1789-1815 (a cura di C. Sisi), Milano 2005, p. 181, fig. 203; Luigi Ademollo (1764-1849). L’enfasi narrativa di un pittore neoclassico. Olii, disegni e tempere. Roma, Galleria Carlo Virgilio. Catalogo della mostra a cura di Francesco Leone, Roma 2008, p. 12 fig. 8: riprodotto a colori.
Questa raffinata opera di Luigi Ademollo, interprete eccentrico del Neoclassicismo, raffigurante la Toletta di Venere faceva parte della decorazione di palazzo Sergardi a Siena (Fig.1-7) e pertanto costituisce un’importante testimonianza dell’attività del pittore nella città toscana. Tale provenienza consente di fissarne l’esecuzione agli anni 1794-95, durante i quali Ademollo fu responsabile della decorazione del suddetto palazzo che, dietro la facciata neo-cinquecentesca disegnata nel 1763 dall’architetto Paolo Posi, fu rinnovato nelle sue sale principali su progetto dell’ormai celebre artista milanese.
La nota intitolata Cenni biografici del pittore Luigi Ademollo scritti da lui stesso intorno al 1837 (pubblicata una prima volta nel 1851 e quindi da Gian Lorenzo Mellini nel 1974) dà conto della sua formazione presso l’Accademia di Brera diretta da Carlo Bianconi, e del trasferimento a Roma dove, poco più che ventenne, il giovane aveva alternato lo studio dell’antichità classica (cui l’insegnamento braidense lo aveva preparato) a una serie di attività in parte connesse all’industria del Grand Tour. Autore di vedute destinate ai viaggiatori stranieri, aiuto di Louis François Cassas per le illustrazioni del Voyage pittoresque, scenografo a Roma fra il 1785 e il 1788, Ademollo elaborò in seguito la propria visione dell’antico ispirandosi ai rilievi di età traianea come alla loro traduzione cinquecentesca operata dagli allievi di Raffaello, contrapponendo però a quella misura classica la visione del passato esaltante e grandiosa proposta da Giovanni Battista Piranesi.
La frequentazione del teatro contemporaneo, e in particolare della tragedia alfieriana che metteva in scena i protagonisti dell’antichità, i loro drammi e le loro passioni quali exempla di virtù civiche e private, alimentò inoltre la straordinaria immaginazione e l’enfasi patetica con le quali Luigi Ademollo saprà svolgere le vicende degli antichi a commento di quelle contemporanee; ed è appunto l’esperienza di scenografo a suggerire all’artista i metodi di organizzazione di una bottega che sarà in grado di coinvolgere organicamente gli spazi a lui assegnati nei cantieri sacri e profani che impegneranno sua lunga e contrastata attività. Vincitore del concorso per la decorazione del Teatro della Pergola di Firenze, Ademollo si trasferisce nel 1788 a Firenze, dove il suo stile così dichiaratamente anticonformista incontrerà l’ostilità degli ambienti accademi -
Lotto 23 Lodovico Caselli
(Siena 1817 - post 1862)
AGAR E ISMAELE
marmo, cm 120x114, su base in legno dipinto a finto marmo, cm 116 x 73 x 120
firmato e datato 1850
L'opera è corredata da certificato di libera circolazione
marble, cm 120 x 114, on a faux-marble wooden base, cm 116 x 73 x 120
signed and dated 1850
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La comparsa di questo gruppo in marmo, singolare per il soggetto più consueto alla pittura e straordinario per la qualità, pone sotto una nuova luce le doti di questo scultore, altrimenti poco noto, sia per la scarsità delle notizie biografiche, sia per la mancanza di opere tali da poterne ricostruire la fisionomia. In realtà, prima di questa importante riscoperta, il suo nome era essenzialmente legato alla sola statua di Paolo Mascagni, il celebre anatomista che era stato anche professore di anatomia pittorica all’ Accademia di Belle Arti di Firenze, eseguita per la serie degli uomini illustri del Loggiato degli Uffizi e ben documentata nei suoi passaggi, dal modello in gesso eseguito nel 1847 alla redazione in marmo finita nel 1852.
Caselli era stato allievo di Luigi Pampaloni e Aristodemo Costoli all'Accademia di Firenze dove nel 1840 aveva vinto il premio per la scultura, a pari merito con Giovanni Dupré, con un bassorilievo in gesso raffigurante Il giudizio di Paride. Risultava presente con un gruppo rappresentante Agar e Ismaele all'esposizione allestita in Accademia nel settembre del 1842, quella stessa in cui il suo ex-rivale Dupré aveva inviato il modello in gesso del poi celeberrimo Abele morente. Essendo la nostra scultura firmata e datata 1850, dovrebbe trattarsi di una successiva redazione dello stesso tema, entrata a far parte nel 1860 di una collezione privata fiorentina dove è rimasta sino alla presente occasione.
Come doveva essere avvenuto nel Concorso accademico del 1840, anche qui Caselli sembrava volersi confrontare con Dupré, in questo caso non nello stesso soggetto, ma nel motivo della figura del fanciullo nudo: lui Ismaele, l’altro Abele. Nel cimento con quel capolavoro destinato ad una grande fortuna Caselli risulta comunque non sfigurare, per la sensibilità anatomica e la sensualità con cui ha saputo rendere il corpo di Ismaele che, sfinito dalla sete, appare sollevato su un fianco, mentre la madre Agar tiene sollevato il volto cui guarda, in una corrispondenza di amorosi sensi, con infinito affetto. Il giovane scultore ha dunque saputo rendere con grande intensità l’episodio biblico che, in quanto espressione di un dolore universale, aveva e continuava a godere di una grande popolarità. Era il dramma della madre che, finita l’acqua e vedendo il figlio morire, aveva perso con ogni speranza anche la fiducia in Dio. In un momento in cui la scultura prediligeva ancora il mito e comunque motivi ispirati all’antichità classica, Caselli, come Dupré, si rivolgeva invece alla Bibbia vista come fonte di temi più rispondenti alla sensibilità contemporanea. Dimostrando le sue capacità e la sua ambizione, lo scultore senese si misurava con un tema che aveva conosciuto una grande fortuna in pittura, con esempi celebri, come Guercino, Van Dyck e Batoni, per quanto riguarda gli antichi maestri, e come Horace Vernet, Ary Scheffer, Piccio e Overbeck, se pensiamo ai più celebri pittori contemporanei. Questo gruppo addirittura precede, se pensiamo che la sua prima redazione è del 1842, il dipinto Agar e Ismaele di Adeodato Malatesta, realizzato tra il 1845 e il 1859, per poi diventare, dopo un così lungo percorso creativo che aveva creato molta attesa, una delle opere più celebri di quegli anni. La singolarità della versione -
Lotto 24 Medardo Rosso
(Torino 1858 - Milano 1928)
AETAS AUREA, 1886-1889
bronzo patinato, alt. cm 40,2
su base originale in marmo rosso, alt. cm 9
Sul retro della base, nell'angolo a destra in alto, è incollata un'antica etichetta sbiadita e un tempo rossa, sulla quale si legge: "allegato/N... [non leggibile]". Restano nell'interno alcuni lacerti di etichette, forse relativi ad un'esposizione.
siglato in basso a destra
L'opera è corredata certificato di libera circolazione
bronze, height cm 40.2,
on its original red marble base, height cm 9
On the back of the base, on the top right corner, old faded label, once red, where is written: "allegato/N... [illegible]". On the
label there are some other paper fragments, that may be referable to an exhibition.
signed lower right
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Provenienza
collezione privata
Bibliografia
l'esemplare è inedito
Per una bibliografia dell'opera nella serie delle varianti in bronzo e cera e fotografia, per la datazione del primo esemplare al 1886, per i diversi titoli e la storia dell’opera si veda P. Mola, I. L'opera e la serie, in P. Mola, F. Vittucci, Medardo Rosso. Catalogo ragionato della scultura, Skira, Milano 2990, pp. 98-103; per gli esemplari in bronzo, gesso e cera documentati dalle fonti, si veda F. Vittucci, ivi, II. Catalogo delle sculture documentate, pp. 256-259; per gli esemplari non documentati dalle fonti si veda P. Mola, ivi, III. Per un catalogo delle sculture non documentate, p. 352; per le fusioni del figlio di Rosso, Francesco, collocate in istituzioni pubbliche, si veda P. Mola, ivi, IV. le fusioni di Francesco Rosso, p. 362.
Medardo Rosso nasce a Torino nel 1858; in giovane età si trasferisce con la famiglia a Milano, dove entra in contatto con l’ambiente della Scapigliatura.
Scultore dalla personalità originale, autore di opere che colpiscono e ammaliano a prima vista, sculture dalle forme sfumate, quasi incerte se uscire dalla materia in cui sono plasmate.
Sin dal 1883 applica ai suoi lavori un verismo artistico, dove si percepisce l'affinità con i grandi della Scapigliatura quali Ranzoni (1843–1889), Grandi (1843–1894), Cremona (1837–1878), sia pure con una ricchezza di contenuto umano, nelle osservazioni degli anonimi protagonisti del mondo proletario nella loro quotidianità, che fanno del Rosso un artista "Eccezzionale", con l’abbandono di ogni monumentalità e ogni effetto statuario, eliminando i contorni; in sostanza applica in scultura le teorie degli impressionisti, che conosce per la prima volta nel 1884, quando si reca a Parigi dove lavora da J. Dalou (1838–1902) ed entra in rapporti con Rodin (1840–1917) e Degas (1834–1917).
Se la Scapigliatura lo indusse a studiare gli aspetti contrastanti e fuggevoli della luce, la scoperta dell'impressionismo lo spinse a trasferire i principi teorici di questa corrente artistica alla sue sculture. Nella scelta tematica dei soggetti si disinteressa completamente dal realizzare opere di carattere celebrativo retorico.
Il suo fu un instancabile lavoro di ricerca e il plasticismo del suo operato è il risultato di una continua osmosi con lo spazio, l'aria e la luce.
Al ritorno dal primo viaggio a Parigi esegue alcune sculture, fra le quali L'Età dell'Oro, opera fra le sue più famose, conosciuta anche con i titoli Il Bacio e Maternità, nella quale i volti della moglie e del figlioletto sembrano quasi essere indistinguibili l'uno dall'altro, tramite un abile gioco di contorni e ombre.
L'estrema qualità della scultura qui presentata ci appare, caduta ogni traccia di episodismo verista, come una felice anticipazione della notevole influenza che l&rsquo